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Covid, “Dopo l’emergenza dovremo prenderci cura del nostro dolore”

Il coronavirus e l'isolamento forzato lasceranno macerie psicologiche nell'intera popolazione. Marta Zighetti psicoterapeuta: "L'etica, la compassione e l'empatia, insieme alla ricerca di senso, saranno il vero antidoto contro un altro contagio"

Generico 2018

Durante l’emergenza sanitaria della pandemia causata dal coronavirus abbiamo visto le immagini dei parenti delle vittime agli angoli delle strade con gli sguardi persi e inebetiti dal dolore alla ricerca di un ultimo saluto da affidare a un carro funebre o a un camion militare diretto ai crematori. Abbiamo visto medici piangere dopo aver fatto l’ennesima intubazione custodendo le ultime volontà dei pazienti che si affidavano alle loro cure. Abbiamo visto infermieri sfiancati dalla fatica rubare qualche ora di sonno e di tregua in una corsia d’ospedale.

Oltre ai danni economici, di cui si parla sempre, il coronavirus e l’isolamento forzato lasceranno macerie psicologiche nell’intera popolazione, interrogativi etici e morali con cui tutti dovremo fare i conti. Gli esperti, soprattutto psicologi e psicanalisti, si stanno già interrogando sull’eredità che lascerà la pandemia nell’immaginario collettivo e su quali siano gli strumenti più adatti per fornire un aiuto adeguato alle persone.

Marta Zighetti, psicoterapeuta e fondatrice a Varese del Centro “Essere esseri umani”, è un’esperta della terapia Emdr, dall’inglese eye movement desensitization and reprocessing, che viene utilizzata per il trattamento del trauma e delle problematiche legate allo stress traumatico.

Dottoressa Zighetti, come sarà il dopo emergenza coronavirus?
«Perché tutto vada meglio dobbiamo poter pensare alle possibili criticità e a fare tanta prevenzione. Il dopo dovrà essere affrontato con gli strumenti adatti. Ci sono famiglie che hanno affrontato le restrizioni imposte dal coronavirus in una situazione gestibile perché avevano gli spazi adeguati e rapporti normali. Altre che invece hanno visto acuirsi al loro interno le dinamiche negative: pensiamo ai separati e alla gestione dei figli o alla presenza di violenza domestica. Penso però che la grande discriminante sia la presenza o meno di contagiati o decessi in famiglia. Se poi la persona coinvolta aveva già vissuto un problema importante, è probabile che il disagio si amplifichi o si riattivino situazioni già vissute a meno che non si sia fatto un percorso specifico».

Come reagisce il nostro cervello di fronte a un rischio di contagio?
«Di fronte a fonti di stress e dolore eccessivi rispetto alla nostra capacità di elaborazione il cervello può ricorrere a un meccanismo di difesa auto protettivo di cui la mente umana dispone per proteggersi rifiutando sentimenti ed emozioni troppo dolorose e soverchianti . È accaduto all’inizio della pandemia, quando il problema sembrava lontano e appartenente ad un altro gruppo sociale, il problema era dei cinesi e era un loro problema e non nostro. Questo ha portato ad una fase di comprensione che più o meno lentamente ha lasciato il posto alla paura. Paura che, se non diventa panico, è molto utile perché ci protegge. Per fare un altro esempio: tutti sanno che fumare fa venire il cancro, ma le persone che fumano rimuovono questa informazione e continuano come se il problema non li riguardasse. Nel momento in cui realizzano la correlazione tra fumo e patologia, provano paura e possono essere più motivati a smettere di fumare».

Abbiamo parlato purtroppo di decessi e di morte: come si elabora un lutto? «In genere l’elaborazione del lutto è un processo fisiologico agevolato dal supporto di amici, parenti, dei nostri legami affettivi. Le neuroscienze ci dicono che il cervello, in condizioni normali, per elaborare un lutto impiega da 6 mesi a un anno. Ma le morti di questo ultimo mese, da Wuhan a Codogno, passando per Bergamo e Brescia, hanno ben poco di fisiologico. I decessi di questo momento in assenza di saluti e di congedi, in assenza di poter affidare e ricevere le ultime volontà, i perdoni, i rimpianti sono, con alta probabilità, quelli che in termini tecnici chiamiamo lutti complicati potenzialmente traumatici per le particolari caratteristiche negative».

Quindi che cosa dovrà affrontare, per esempio, un figlio che non ha potuto salutare i genitori morti in ospedale o in una RSA?
«È altamente probabile e anche normale che chi ha perso una persona cara durante l’emergenza senza poterla salutare e senza poter fare un funerale subirà un trauma ulteriore. Il tutto si complica se c’era una situazione sospesa o un conflitto non chiarito. I riti come il funerale sono fondamentali e servono a elaborare quello che è successo. Ecco perché è importante ricreare appena è possibile questa ritualizzazione».

Sentendo le testimonianze ma soprattutto vedendo le immagini dei parenti delle vittime si aveva la sensazione che oltre al dolore fossero in preda a uno stordimento.
«Parliamo di lutti spesso multipli, improvvisi e non ritualizzati. Quella sensazione di annebbiamento, tecnicamente si definisce numbing, una sorta di stordimento emozionale ed è una delle possibili risposte allo shock; risposte che possono lasciare posto alle vere e proprie reazioni traumatiche: chiusura, il continuo cambiamento del tono dell’umore, rabbia e reazioni sproporzionate, difficoltà nella concentrazione e nella memorizzazione, ma anche senso di inadeguatezza e vulnerabilità, i flashback e pensieri intrusivi. In questi casi è importante capire che bisogna farsi dare una mano. Sono traumi importanti che vanno curati per tempo e senza vergognarsene e in questo la terapia EMDR è veramente un grande aiuto che permette e favorisce una elaborazione completa dell’evento, per mia esperienza clinica non esiste un approccio più completo strutturato ed efficace soprattutto per elaborare il lutto traumatico».

Che impatto avrà questa esperienza su medici e infermieri che in molti casi sono stati le ultime persone a cui i malati hanno affidato le loro speranze e i loro messaggi per i familiari ?
«Ho fatto dei brevi video per queste figure che spesso sviluppano la sindrome da traumatizzazione vicaria. Il termine stabilisce che anche un operatore durante una situazione lavorativa possa vivere un trauma, non per esposizione diretta, ma per il contatto con la persona traumatizzata. Per questo la relazione con la vittima può investire l’operatore dello stesso trauma in modo secondario ed indiretto. il personale sanitario ed in genere i soccorritori sviluppano una maggiore capacità di tenuta che permette di fronteggiare attraverso la azione ma il dopo per molti potrebbe essere un percorso impegnativo, perché, come accade ai soldati in guerra, allontanarsi dal fronte è difficile. Abbiamo giustamente considerato fondamentali ed eroici medici infermieri e tutto il personale dell’ospedale, le forze armate e la protezione civile ma non possiamo rinforzare l’idea di invulnerabilità che non permetterebbe a questi ultimi di esprimere il loro eventuale disagio colludendo con una pericolosa negazione di un bisogno più che naturale».

C’è stata un’Italia che ha risposto alle richieste dell’autorità, che è stata solidale e in qualche modo ha cooperato nella lotta contro il virus. Anche l’Italia ne uscirà diversa?
«Io non prendo il coronavirus se tu stai casa è stato un messaggio forte perché ci ha fatto capire che il nostro destino è legato a quello degli altri. Il coronavirus ha enfatizzato il valore dell’altro anche in un altro modo: l’isolamento ha annullato la prima e principale fonte di regolazione cioè il contatto. Siamo l’unica specie che regola la omeostasi corporea attraverso il rapporto con l’altro, il nostro cervello finisce di strutturarsi nel rapporto tra il neonato e l’adulto, insomma l’evoluzione ci ha programmato da milioni di anni per stare in contatto e relazione con l’altro e ha consegnato ai legami affettivi gran parte delle nostre facoltà. Per contrastare questa carenza insopportabile è emersa una profonda solidarietà e sono prevalsi comportamenti compassionevoli, le persone si sono mosse al di là del profitto. È la parte positiva di questa esperienza».

Riusciremo a fare tesoro del lato positivo di questa esperienza?
«Il fatto di riuscire a capitalizzarla o meno come Paese, dipenderà da come processeremo questo trauma collettivo e dal supporto sociale che avremo nella fase post traumatica. A un fenomeno così grande, che sovrasta tutto e tutti e che non a caso definiamo pandemia, la risposta deve essere sistemica, integrata, cooperativa altrimenti non ce la faremo a riprenderci. Andrà rivalutato tutto ciò che appartiene all’emisfero destro del cervello che è fuori dagli schemi produttivi della nostra società ovvero l’etica, la compassione e l’empatia che saranno, insieme alla ricerca di senso, il vero antidoto contro un altro contagio. Preserviamoci dalla possibile erosione delle relazioni e dei legami affettivi potenzialmente intaccati dal trauma. Quegli stessi legami che ci sono tanto mancati, che costituiscono il cibo dell’anima e che nessun bene materiale potrà mai sostituire».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it
Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.
Pubblicato il 04 Aprile 2020
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