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Qui Silicon Valley, dove tutti sono stufi di Trump

L'area che racchiude le grandi aziende digitali è contraria alle politiche del presidente uscente e non lo nasconde. Ma c'è anche chi teme le mosse di Biden una volta eletto - Di Marco Astuti

cupertino Silicon Valley

“TONIGHT WE CRY, WE DESPAIR AND WE FEAR. TOMORROW WE GET BACK TO WORK TRYING TO BUILD THE WORLD WE WANT”. Questa la frase, a caratteri cubitali, che ho letto su una delle migliaia di riviste che accoglievano chi, come me, entrava nel Convention Center di Las Vegas il 5 gennaio 2017, primo giorno del Consumer Electronic Show, la più grande rassegna mondiale delle tecnologie innovative.

A fianco l’immagine del suo autore, Sam Altman, allora Presidente di YCombinator, il più importante acceleratore di startup della Silicon Valley e quindi del mondo; oggi dirige un prestigiosissimo laboratorio di Intelligenza Artificiale.
La frase mi è rimasta impressa perché rappresentava plasticamente quel senso di generale e diffusa tristezza che si avvertiva ovunque nella mostra dopo la vittoria di Trump alle elezioni del precedente novembre. Stesso sentiment che poi avrei trovato ad ogni livello di responsabilità aziendale nei giorni successivi peregrinando, come tutti gli anni, su e giù per la Silicon Valley.

Da sempre in grande maggioranza democratici, certo rimpiangevano gli anni di Obama in cui la Valle (così la si chiama confidenzialmente lì) era arrivata, anche per il convinto supporto del Presidente afroamericano, a considerarsi il motore economico e sociale del nuovo secolo digitale.
In quei giorni era chiaro che stava cambiando tutto, ma già nelle parole di Altman si vedeva il desiderio di rivincita. A riprova mi aveva colpito, e lasciato alquanto perplesso, che a poche ore dai risultati delle elezioni, la popolarità dell’hashtag Calexit, la “Brexit” della California, era schizzato sui social network supportato dalla consapevolezza che la California da sola era, ed ancora è, la “sesta potenza economica mondiale”. In continuità con l’iniziativa, avviata alla vigilia del voto, di 140 personalità della Silicon Valley guidate dal cofondatore della Apple, Steve Wozniack, che avevano firmato un fortissimo appello che definiva l’eventuale presidenza Trump «un disastro per l’innovazione».

In controtendenza con quanto osservavo direttamente, mi aveva però sorpreso quanto era avvenuto qualche giorno prima, il 13 dicembre 2016. Come se niente fosse successo, il neopresidente aveva accolto festoso la processione dei top manager della tecnologia, venuti a rendergli omaggio nella Trump Tower, con queste parole: «Sono qui per aiutarvi. Siete gente straordinaria, fate cose incredibili per l’innovazione. Non c’è nessuno al mondo come voi». E di fronte aveva Tim Cook di Apple e Jeff Bezos di Amazon (che solo qualche mese prima aveva minacciato senza mezzi termini: il primo per costringerlo a produrre negli USA e il secondo promettendo di avviare devastanti azioni antitrust). Ma anche ad Elon Musk di Tesla, pure presente, non erano mancate minacce di boicottaggi. Nel gruppo c’erano poi il fondatore di Google Larry Page, l’amministratore delegato di Microsoft Satya Nadella e i loro colleghi di Cisco, Intel, Oracle, IBM e altre aziende ancora. Uno spettacolo davvero imbarazzante a cui però gli americani ci hanno da tempo abituati.

Solo due grandi assenti: Jack Dorsey, il fondatore di Twitter e Mark Zuckerberg reo di aver incalzato il neopresidente sulla questione degli immigrati (ma Facebook era comunque rappresentata dalla «numero 2» Sheryl Sandberg).
Se non proprio la pace, tra il presidente conservatore e populista e l’industria del futuro, da sempre schierata coi democratici, era quantomeno arrivato un armistizio, che però è durato poco, e il proseguimento del mandato trampiano è stato costellato da continue tensioni sfociate in cause miliardarie, tribunali e audizioni dei “ribelli tecnologici” nelle sedi istituzionali.

Va da sé quindi che da quasi un anno la Silicon Valley si sia mobilitata a sostegno dei candidati democratici e non si sia risparmiata nello staccare assegni con molti zeri. E’ ben chiaro che la corsa per la Casa Bianca sarà cruciale per l’intero settore dell’high tech continuamente sottoposto a pressioni regolatorie e legislative.
Ho la fortuna di avere continue occasioni di confronto con alcuni fra i principali esponenti della prestigiosa comunità italiana che lavora nella Silicon Valley. Lì ho avuto numerose esperienze lavorative e accademiche e ci torno più volte all’anno. Per i ben noti motivi negli ultimi mesi queste occasioni si sono realizzate solo mediante computer e telefono, in particolare con il mio amico Maurizio Gianola, un ingegnere varesino che lavora nella Valle da quasi 40 anni dove ha sempre ricoperto posizioni di grande rilievo e responsabilità in diverse aziende di alta tecnologia.

Quest’anno, all’inizio, sono stato bombardato di richieste di informazioni su come stavamo vivendo la pandemia ma negli ultimi mesi ho potuto anche capire bene come si stanno preparando alle elezioni e perché sono schierati, almeno in maggioranza, con i democratici.
Innanzitutto la California e la Silicon Valley sono, per la loro storia, ontologicamente “liberal”, e quindi democratici, con parole d’ordine quali anti-gun (contro la vendita e il possesso delle armi), pro-choice (favorevoli all’aborto), pro-immigration (favorevoli all’immigrazione), healthcare (sostenitori dell’assistenza sanitaria per tutti) e così via. E insieme con una mentalità più aperta ai cambiamenti sociali (Black Lives Matter, lotta alle disuguaglianze, attenzione e rispetto delle diversità, ecc.).

Sono tutti stufi di Trump, delle sue politiche, delle sue bugie, dell’incompetenza, dell’uso di risorse governative a scopi personali, dei tweets, e via dicendo. Oggi poi gli rimproverano di non aver capito, e quindi sottovalutato, l’impatto del Covid con conseguenze disastrose per milioni di americani e con percentuali molto più alte rispetto alle altre nazioni industrializzate.
C’è poi da considerare che nella Valle c’è una fiducia quasi cieca nella scienza e nella tecnologia che quindi non tollera l’atteggiamento opposto di Trump (Covid). Senza trascurare che l’economia High Tech “tira” anche durante il Covid, anzi sta crescendo ancor più velocemente di prima sostenuta dalla digital transformation (Zoom, Amazon, Cloud services, ecc.).

L’atteggiamento conservatore di Trump non è accettato in Silicon Valley: le nomine alla Corte Suprema, il tentativo di rimuovere l’ObamaCare, le politiche anti immigrazione “build the wall” (al contrario in California c’è un enorme bisogno sia di high tech workers che di lavoratori nei campi agricoli), l’eccessiva de-regulation, l’accettazione di un capitalismo sfrenato qui non funziona più e va calibrato con una distribuzione del benessere più capillare e non solo alle Big Tech e i suoi dipendenti.

Da ultimo c’è la problematica connessa con le Big Tech (Google, Amazon, Facebook, Twitter, Apple, Microsoft). Come anche provano i dati trimestrali pubblicati questa settimana, sono diventate troppo potenti, quasi monopolistiche, e dispongono di un eccessivo potere che andrebbe maggiormente controllato (“check & balances”). O decideranno di autoregolarsi (Facebook in particolare) oppure lo stato federale dovrà intervenire come già ha cominciato con la causa anti-trust contro Google.
Per completezza di informazione bisogna tener conto che nella Valle ci sono numerosi capitalisti che temono molto un’eventuale presidenza Biden: ritengono che provocherebbe un sostanziale aumento delle tasse ed ingerenza sull’economia, con relativo crollo della borsa e contrazione del mercato di Mergers&Acquisitions. Secondo un importantissimo Venture Capitalist che conosco bene, “Trump is the best President in American history”, sue parole testuali.

Per comprendere fino in fondo il sentiment più condiviso nella Silicon Valley è utile questo editoriale particolarmente duro del New York Times.
Se teniamo presente che questo articolo si riferisce a tutti gli Stati Uniti abbiamo anche una riprova del momento davvero difficile per tutti gli americani: un bivio, come affermano in molti. Mai negli ultimi 50 anni si era vista una contrapposizione così netta e radicale. Sicuramente acuita da Trump ma con radici ben più lontane, come molto ben analizzato nel libro edito da Mondadori Questa è l’America di Francesco Costa, autore anche dell’interessantissimo podcast da Costa a Costa, peraltro gratuito.
Davvero le elezioni della prossima settimana certificheranno un momento di discontinuità epocale per gli americani e di conseguenza anche per tutti noi.

di
Pubblicato il 31 Ottobre 2020
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