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La vita agra della Cascina dei Poveri di Busto Arsizio raccontata da chi ci è nato e vissuto

Abbiamo incontrato alcune donne che hanno vissuto una parte della loro vita nella cascina che diede i natali alla Beata Giuliana. Ci hanno raccontato come si viveva nella prima metà del secolo scorso

cascina dei poveri

Pierino Comotti, dirigente tessile di grande valore che, volendo provare l’emozione di salire nel cielo con un aerostato, discese in un campo vicino alla Cascina dei Poveri. A coloro che erano accorsi per aiutarlo a disincagliarsi chiese come si chiamavano. Risposero con un urlo: ” Sem tutt Galòzi ” (siamo tutti Gallazzi)!.

Così scriveva Carlo Azimonti parlando delle omonimie frequenti nella Busto Arsizio di un secolo fa e così ci è capitato di sentirci dopo una chiacchierata con alcune delle componenti della grande famiglia Gallazzi che hanno vissuto una parte della loro vita alla Cascina dei Poveri, oggi ridotta ad un rudere che alcuni volenterosi vorrebbero salvare attraverso la campagna “I luoghi del Cuore del Fai”. Le abbiamo incontrate in una bella casa di via Quintino Sella dove si sono riunite insieme al professor Tito Olivato, anima del comitato Pro Cascina dei Poveri, per raccontarci come si viveva in cascina tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni ’60.

Maria Carla, la mamma Giovanna, Maria Angela con la nipote Paola ci hanno raccontato alcuni aspetti di quella vita dura e amara ma che dai loro racconti emana anche un calore e una solidarietà che è difficile riscontrare oggi in un condominio qualsiasi. Era la vita di corte, sospesa a metà tra la campagna che dava il sostentamento e la fabbrica che dava lo stipendio.

Prima della fabbrica c’erano i campi

Le Gallazzi ci raccontano che molti degli uomini (e delle donne) che vivevano in cascina lavoravano nelle tante fabbriche che puntellavano la città fino a qualche decennio fa. C’era chi lavorava in maglieria, chi al cotonificio e chi al calzaturificio ma per tutti la sveglia suonava prestissimo perchè c’erano i campi da seguire, le mucche da mungere, i vitelli da sfamare: «Durante la guerra si mangiava pane nero (quello bianco era una rarità e si mangiava una briciola alla volta), i prodotti che la terra ci dava e solo qualche volta la carne di pollo o di gallina. La colazione era fatta di pane e latte, qualche biscotto a volte rosicchiato da qualche topo di campagna». Per “ingrassare” la terra si usavano gli escrementi prelevati dalle fosse sotto i bagni in cortile ma ognuno aveva il suo bagno e concimava la terra col proprio prodotto» – racconta ridendo Maria Carla. E poi c’era la coltivazione di bachi da seta come ci racconta Paola, nipote di Maria Angela e figlia della sorella gemella Agnese: «Qui si coltivavano i bachi da seta che servivano i setifici del comasco». Una volta terminati i compiti in campagna si inforcava la bicicletta e si andava in fabbrica.

Gli anni della guerra

La più loquace è Maria Carla Gallazzi: «Avevamo sempre paura quando passavano gli aerei perchè avevamo paura che scambiassero la cascina per una caserma. Qualche bomba è caduta nei dintorni ma da noi non è mai successo. Ricordo invece quando arrivarono alcuni fascisti in cascina a caccia di partigiani. Arrivarono di notte e iniziarono a cercare stanza per stanza, fino a quando arrivarono davanti alla porta della “Pina Negra” che aveva sei fratelli che iniziò a convincerli che non c’era nessun partigiano in cascina fino a quando se ne sono andati, senza portar via nessuno».

Maria Angela, invece, ci racconta di un soldato americano che era di stanza nella non lontana caserma aeronautica di Gallarate che voleva portarla con sè negli Stati Uniti: «Diceva che assomigliavo ad una bambina che era morta e insisteva per portarmi via coi miei genitori. Un giorno portò tutta la nostra famiglia in caserma dove c’era una tavolata piena di ogni ben di dio. Mangiammo con loro e poi ci regalarono il cioccolato».

Nel gruppo delle Gallazzi, nel frattempo, si è aggregata anche Giuliana Ronzoni, nata in Cascina dei Poveri, il cui nonno era arrivato con moglie e 7 figli col carretto da Basiano (un paese della Brianza): «Mio papà era del ’19, è partito nel ’39 per andare in guerra ed è tornato nel ’47, tra gli ultimi perchè era stato fatto prigioniero in Sud Africa».

cascina dei poveri

Il salamino scoppiato e la stalla come luogo di ritrovo

Maria Grazia ci racconta anche del salamino scoppiato: «La nostra era una delle famiglie più numerose e per accontentare (o meglio, scontentare) tutti apriva l’unico salamino e mischiava la carne con le patate. Quando vedevamo che nel piatto non c’era il salame ma solo patate che “profumavano” di salamino, lei ci diceva che era scoppiato e quindi era finito un po’ dappertutto».

Uno dei momenti di socialità più importanti in inverno, invece, era nelle stalle dove ci si scaldava col fiato dei bovini: «Le case erano fredde mentre la stalla era sempre calda. Le donne ricamavano e si trovavano per il rosario – racconta Maria Grazia – con una lampadina appesa al soffitto».

Il centro cittadino e la campagna

Paola ricorda quello che diceva la mamma Agnese della profonda differenza tra la vita in cascina e quella in città: «Mi diceva che loro erano gli stupidi, i contadini e che non sapevano quasi nulla della vita in città». Maria Carla invece ricorda il suo matrimonio nella chiesa di San Michele che all’epoca era la parrocchia di riferimento per la cascina e di quando «tutti insieme si percorreva il tracciato del tram che passava sull’attuale viale Repubblica, fino in piazza Manzoni per andare a prendere il gelato».

I cittadini, invece, facevano il percorso inverso in alcune occasioni: «Quando serviva l’acqua fresca o le uova venivano da noi e poi in occasione della festa della Beata Giuliana quando si addobbava la cascina coi paramenti e facevamo la pesca miracolosa».

I soprannomi

In cascina tutti avevano i soprannomi. «Noi Ronzoni eravamo i brianzoli perchè venivamo da lì» – racconta Giuliana. Ma c’era la marescialla, il pizzastua, ul scicoeu, Pepino il galet, il pasqualin e il pasqualon. Tutti avevano un soprannome per distinguersi in qualche modo visto che sia i nomi che i cognomi spesso si ripetevano.

Orlando Mastrillo
orlando.mastrillo@varesenews.it
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Pubblicato il 03 Settembre 2022
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