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Quella notte della strage dei fornai Del Grande e la storia del brigadiere Giovanni Tabilio

La storia di Giovanni Tabilio, fedele all’Arma da sempre e per sempre, che ha affrontato tanti casi delicati tra cui la strage della famiglia Del Grande a Cadrezzate

Rubrica Lorenzo Franzetti

Faceva freddo il giusto, in quella Epifania di 25 anni fa, con i brividi di umidità, tipici del basso lago, che entravano nelle ossa, attraverso la camicia, sotto la divisa. Il brigadiere Tabilio era di servizio anche quella notte, come tante altre di una stagione: da due mesi c’erano contadini di mezza Italia che occupavano le autostrade con trattori e bestiame, agitavano forconi e sparavano letame contro le forze dell’ordine. Fortunatamente, a Sesto Calende, la protesta delle “quote latte” era meno violenta: giorno e notte, i contadini si erano accampati in un terreno che dava sulla Statale del Sempione e quella notte di pioggerellina e nebbia, al posto della rabbia si spandeva nell’aria il profumo del vin brulé. Vigilare su quei contadini significava ascoltarli, scambiare anche qualche battuta di solidarietà reciproca, dire no al vin brulé,  «no grazie, in servizio non si può».

LA STRAGE DELLA FAMIGLIA DEL GRANDE A CADREZZATE

«Erano circa le tre di notte, quando ricevetti una chiamata dalla caserma. Mi dissero di andare a dare un’occhiata a Cadrezzate, in una villetta, perché avevano chiamato dicendo che avevano sparato. Non si capiva bene, era stata una telefonata confusa». Si temeva persino fosse uno scherzo. Dieci minuti d’auto, attraverso una superstrada e a seguire un percorso tortuoso tra paesini e boschi. «Non conoscevo bene la zona, perché io di solito operavo in un’altra area più a Sud. Quello era un territorio controllato di solito dai carabinieri di Angera, ma a quell’ora e in quel giorno, io ero quello in servizio e più vicino al luogo della chiamata. Io e il carabiniere Scarfato, molto giovane».

Trovarono la villetta, sulla strada che collega Osmate e Cadrezzate, sul posto era appena arrivata anche un’ambulanza. «Tutto taceva, non c’erano luci accese. Le porte erano chiuse a chiave. Provai a telefonare e qualcuno tentò di rispondere, ma non riusciva a parlare. Decisi allora di rompere un vetro di una finestra del seminterrato. Riuscii ed entrare in quel locale, arredato a palestra. Salii le scale ed entrai in soggiorno». In provincia, si dice, non succeda mai niente, posti tranquilli, gente per bene, gran lavoratori e nulla da dire. Ma non è così, perché spesso nelle comunità in cui ci si conosce tutti, magari da generazioni, le magagne si preferisce non vederle, non ci si crede. E a volte, le tragedie esplodono in mano, come un petardo farlocco che si è sottovalutato. «C’era il salotto pieno di sangue, un lago. Dentro a quel lago c’era un giovane, vicino al telefono, che sembrava ancora vivo. Cercai altre persone in casa e in camera da letto c’era il corpo di una donna. Senza toccare nulla, nel frattempo, avevamo fatto entrare i soccorritori che portarono via il ragazzo. Io continuai a girare per casa e scendendo in garage, dietro a un fuoristrada, quasi non si vedeva un altro corpo, anche quello pieno di sangue. Un uomo. Morto».

Era la casa della famiglia Del Grande, quella villetta, teatro di una strage che scosse non soltanto il basso Verbano, ma l’Italia intera. Era la strage di Elia Del Grande, giovane benestante con una vita tormentata e drogata, che aveva deciso di sterminare la sua famiglia. Un fatto scioccante per il Varesotto, che fa discutere ancora oggi, con l’assassino ormai in odore di libertà. Il brigadiere Tabilio, quasi per caso, si trovò dentro quella tragedia che, inevitabilmente, ha lasciato un segno dentro la sua vita, sotto la divisa: «Anche se allora, avevo quarant’anni, ero molto freddo, cercavo di non farmi prendere da queste vicende. Ci penso molto di più adesso, che mi hanno messo in riserva».

I fatti di quella notte e della mattina successiva, però, Giovanni Tabilio li ha scolpiti nella memoria, come fossero accaduti oggi: «Ricordo lo sconforto, quello sì, di quando ci dissero che il ragazzo non ce l’aveva fatta, era morto tra le braccia dei medici all’ospedale di Angera. Ricordo tutto, i colleghi che mi raggiunsero, poi arrivarono i magistrati: il primo fu il dottor Politi che si fermò a parlare a lungo con me, più tardi arrivò il dottor Abate e ricordo che c’era un po’ di tensione perché inizialmente non si trovava una telecamera per filmare tutta la scena della tragedia. Fu una notte lunghissima, io rimasi in servizio fino a mezzogiorno o forse di più». E poi tornò a casa, dalla moglie e dai figli adolescenti, che cercava di tenere fuori da quelle storie.

L’ASSALTO ALLA BANCA DI VERGIATE

Storie di provincia, posti tranquilli che, quando meno te l’aspetti, fanno esplodere il loro lato perverso, quello malato e violento. Come quella volta a Vergiate: «Ero appena arrivato in servizio nel Varesotto, ricordo, e a Vergiate era giorno di mercato, con tanta gente nelle strade. Fu assaltata la banca in centro paese e i banditi fuggirono sparando in aria. Io e un collega eravamo nei paraggi in auto e iniziammo un inseguimento a tutta velocità. A un certo punto, a Cimbro, l’auto dei rapinatori che avevamo davanti si fermò, scesero, si tolsero il passamontagna e cominciarono a spararci addosso. Ridussero la nostra auto a un colabrodo, noi riuscimmo a ripararci e a rispondere al fuoco. Mi tremavano le gambe, fu una delle poche volte che ebbi paura». Le cose andarono bene anche quella volta, i delinquenti furono poi catturati e nessuno si fece male.

LA RISSA DELLA DISCOTECA NEL MANTOVANO

Storie finite male, storie finite bene, quasi sempre per caso. Come, per caso, ancora prima e in un’altra provincia, il brigadiere Tabilio si trovò a intervenire in una rissa in discoteca, nel Mantovano, a Castiglione delle Stiviere. «C’era una piccola colonna di fumo che si vedeva da lontano, qualcuno stava tentando di dar fuoco al locale. Per fortuna non ci riuscirono». Chi stava tentando di dar fuoco alla discoteca Melamara erano due giovani esagitati. «Anche quella volta eravamo solo in due, io e un collega, strappammo i due ragazzi alla folla che li voleva menare e o poi finì che i ceffoni dovetti darli io, perché uno dei due, una volta caricato in macchina, continuava a scalciare dal sedile posteriore, impedendomi di guidare». I due piromani erano Marco Furlan e Wolfgang Abel: il caso, ancora lui, portò Giovanni Tabilio dentro a una delle vicende più macabre e controverse della cronaca nera, quella della setta Ludwig. Furlan e Abel furono riconosciuti e condannati per l’uccisione di dieci persone (ma una ventina di altre morti sospette). Erano serial killer autori di numerosi delitti e un incendio, in una discoteca di Milano, in cui morirono sei persone. Delitti compiuti in nome di una visione folle di estrema destra, rivendicati come setta Ludwig.

UNA VITA NELL’ARMA DEI CARABINIERI

Storie che restano nel cuore e nella testa di un carabiniere che ha messo tutta la vita dentro a una passione, a un destino: «Mio padre era un carabiniere, io sono diventato carabiniere nel 1974 e resto un carabiniere anche ora chi mi hanno mandato in pensione». Ce lo hanno mandato, lui avrebbe voluto stare al suo posto, nel suo ufficio di provincia, a Ternate. Quell’ufficio, oggi, l’ha ricostruito identico nella sua casa, sul lago di Comabbio: la scrivania e il computer con dentro tutto l’archivio della sua vita nell’arma, i calendari dell’Arma alle pareti, i riconoscimenti appesi, la divisa e il cappello appesi dietro, «Facciamo una foto?» E corre a indossare la giacca, con orgoglio, quasi emozionato nel rimettersela. Mostra un documento, c’è scritto che è carabiniere in riserva: «Mi è dispiaciuto, ma è giusto così, soprattutto pensando a mia moglie che ha fatto 45 anni quasi senza di me, perché non avevo vita privata, fare il carabiniere non è un mestiere come un altro». Ed è quasi un monito per i giovani militari, quelli che hanno preso il suo posto, nella piccola caserma di Ternate: «Fare il carabiniere in provincia ti porta a confrontarti in un mondo chiuso e allora devi imparare a conoscere la gente, devi stare in mezzo a loro, parlare con loro, fermarti in piazza, ascoltare le persone. Non ha senso fare il carabiniere qui e limitarti a farti le sei o sette ore di servizio e stop, con o senza divisa resti un riferimento in questi posti».

Giovanni Tabilio, fedele all’Arma da sempre e per sempre, cerca consolazione nel suo orto con vista lago, nel frutteto che gli dà tanto da fare, ma che non gli impedisce di pensare. C’è orgoglio, tanto, nei suoi ricordi, ma anche un filo di amarezza, ripensando alle vicende tragiche che ha affrontato: «Quelli della setta Ludwig sono già liberi, Elia Del Grande, l’assassino di Cadrezzate, è già fuori. Il tempo passa, insomma, ma mi sembra sempre troppo poco: il carcere deve rieducare, lo dice la nostra Costituzione, ma a volte mi sembra che ci sia troppo poco rispetto per i morti, le persone uccise, massacrate, seviziate». Il tempo passa, ma il brigadiere Tabilio resta umano: si commuove pensando a suo padre carabiniere in Val d’Ossola, si emoziona indossando la divisa che è ancora lì appesa, sorride sentendo sua moglie che si muove in casa, fuori dal suo ufficio ricostruito come in caserma, sospira e scuote il capo ricordando il sangue e le vittime in quella casa di Cadrezzate, si consola guardando le nuove gemme del suo frutteto. «No, non è un mestiere come un altro…».

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Pubblicato il 04 Gennaio 2023
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