“Il Bangladesh non è solo fast fashion”: un giovane di Samarate racconta il verde oltre le fabbriche
Le fabbriche e le risaie, le credenze tradizionali delle comunità tribali e gli smartphone: Matteo Crucitti racconta il Bangladesh oltre i pregiudizi occidentali

«La narrazione occidentale mi aveva imposto aspettative precise: igiene carente, ambiente inquinato, un Paese dominato dall’industria della fast fashion» dice Matteo Crucitti, ventunenne di Samarate di ritorno dal volontariato missionario in Bangladesh. Prima di partire, aveva scelto di non documentarsi troppo su storia, usi e costumi del popolo bengalese: «I siti europei avrebbero quasi certamente mostrato contenuti filtrati da un bias occidentale».
«Le cose brutte, è vero, ci sono. Ma c’è tantissimo verde, è verde ovunque – racconta – fuori da Dacca ci sono solo risaie». Crucitti, studente universitario di biotecnologie mediche, è rimasto colpito dall’orizzonte verde che lo ha accompagnato per un mese intero: «È una delle cose che più mi mancherà tra il Varesotto e Milano. Credo che l’ambiente qui e lì non sia paragonabile, sono due mondi diversi, ma mi piacerebbe continuare a cenare tutte le sere dopo aver visto un tramonto sulle risaie».
Dalla sua esperienza, Crucitti porta a casa un desiderio: «Sarebbe fantastico aumentare la vegetazione anche nella nostra zona: viali alberati, arbusti nelle rotonde di cemento, siepi sui cigli delle strade. Non credo sia un sogno irrealizzabile: ci sono posti che sono stati chiusi al traffico e riforestati». Ma sottolinea una differenza sostanziale: «In Bangladesh la manutenzione del verde non è affidata a una corporate: le persone attingono direttamente alle risorse naturali lungo le strade per sfamare i propri animali e la propria famiglia. Ricordo famiglie che, dopo il pranzo, uscivano a raccogliere frutta dagli alberi per portarla a tavola come dessert. È un contesto diverso: le caducifoglie non sono un problema, perché le strade non sono asfaltate né trafficate».
Il problema dei rifiuti
Accanto alla bellezza del paesaggio, Crucitti riconosce le criticità: «Nelle campagne non passerà mai il camion della differenziata: sono costretti a bruciare l’immondizia. Quando vedevo alzarsi le fumate nere, capivo subito cosa stesse succedendo. Mi infastidiva, ma non possiamo pretendere da un Paese a cui mancano servizi e infrastrutture di rispettare i nostri standard». E aggiunge: «Credo che aver visto questa realtà mi spinga a dire che ha ancora più senso impegnarci noi, che possiamo, che abbiamo i mezzi, i fondi e una maggiore consapevolezza. In un Paese che è un terzo del nostro ma ospita tre volte la popolazione, dove l’età media è di 27 anni, è in corso una rivoluzione politica sotto un governo provvisorio autoritario, e persiste la discriminazione tra bengalesi e tribali, la priorità, legittimamente, non può essere la gestione dei rifiuti».
Fast fashion: tra etichette e lavoro
«Tutti conoscono il Bangladesh perché leggono il “made in” sulle etichette dei capi» spiega Crucitti. «Molti pensano che chiudere l’industria tessile sia la soluzione ecologica e sociale. Ma sarebbe un dramma: cinque milioni di persone lavorano in questo settore. Ricollocare una fetta così grande della popolazione sarebbe impossibile». La via, secondo lui, non è la chiusura: «Si potrebbero chiedere alle imprese – quelle che hanno i mezzi e i fondi – di investire in sicurezza ed ecologia. Chiudere dall’oggi al domani non è la soluzione, non possiamo valutare il fenomeno con gli occhi dell’Occidente».
I tribali e l’opportunità dell’istruzione
Il giovane volontario ha speso il mese di missione tra le comunità tribali: «Sono poveri e lo sanno. Hanno ricevuto tanti aiuti e, in un certo senso, si sono convinti di esserlo. Alcune cose, adesso un po’ le pretendono. L’obiettivo è responsabilizzarli: far capire che niente è dovuto».
Il PIME, spiega, gestisce missioni dedicate a loro. «Non dobbiamo immaginarceli come uomini dell’età della pietra: hanno una loro lingua, una loro cultura, ma usano lo smartphone e la moneta locale. La maggior parte è pagana, crede nelle forze della natura. Indossano amuleti, segnano i bambini con righe nere sulla fronte per augurarne la crescita, si affidano ai santoni». Nella missione cui ha partecipato, Crucitti si è impegnato in ostelli che accolgono ragazzi tribali, indipendentemente dalla religione, offrendo vitto e alloggio vicino alle scuole, per facilitarne e favorirne l’accesso. «Si chiede un contributo minimo, per responsabilizzarli: devi voler studiare davvero» racconta.
Religione, famiglie e nuove opportunità
In Bangladesh, osserva Crucitti, la religione è molto meno vincolante: «I matrimoni misti sono assolutamente accettati, cambiare religione non crea grandi problemi. Forse si mettono più facilmente in discussione perché non hanno mai avuto una guida forte».
La maggior parte della popolazione resta contadina e non frequenta la scuola. «Non hanno lungimiranza economica. È diffusa la cultura di fare tanti figli per avere qualcuno che si prenda cura di te da anziano: questo alimenta la sovrappopolazione».
Per Crucitti, però, la missione del PIME è chiara: «Non vogliamo imporre la nostra cultura, ma offrire opportunità. Senza di noi i tribali vivrebbero comunque bene. Ma se un ragazzo vuole studiare, gli diamo la possibilità di farlo. Non è scolarizzazione obbligatoria: se vuoi metterti in gioco, ti apriamo una porta. Non siamo gli occidentali che arrivano a dire come devi vivere e in cosa devi credere».
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