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Peppo Spagnoli, libero come il jazz

di Davide Ielmini

Generico 2018

Lì c’era la musica. Le persone e la musica. La compagnia e la vecchia, romantica, idea di comunità. Non ricordo una sola volta in cui non abbia visto Peppo Spagnoli sorridere sotto quei baffoni alla Peppone. Di quei tempi del Giovannino Guareschi, quest’uomo possedeva la carica e il coraggio intellettuale. Lo sprezzo ardito per le convenzioni, il carattere sanguigno del ribelle, la tensione verso il domani. Il carattere indomito di chi, però, crede nella condivisione e nell’unità. Libero di dire la sua, anche a costo di scontrarsi.

Il suo era un piccolo regno: un ufficio dall’odore intenso di archivio bibliotecario dove le carte, i dipinti, i libri e i dischi sembravano a volte scomparire dietro la sottile cortina fumogena del toscano ammezzato. Tirato lentamente, come una pausa in mezzo ad una mitragliata di note. In quella casa, come ce ne sono tante in una via anonima della provincia di Varese, a due passi dalla stazione di Arcisate, non c’era nulla di dozzinale o di scontato. Bandita la banalità, si studiava la teoria attraverso la pratica. I grandi interpreti del jazz accanto a quelli della musica classica e contemporanea.

Da Bud Powell e John Coltrane a Maurizio Pollini e Alfred Cortot. Tutti, immensamente, straordinari da poterli deificare. Nonostante tutto, Spagnoli non ha mai peccato di presunzione. Semmai il contrario: passando in rassegna le miriadi di registrazioni che ogni giorno raggiungevano il centro operativo di Arcisate, lui imparava. Metteva in discussione sé stesso e le sue – le tue – conoscenze. Per amplificarle o farne una critica inclemente. Lo si faceva andando, insieme, alle presentazioni delle ultime pubblicazioni; negli studi di registrazione per assistere a come la materia diventa musica; nei concerti estivi dove la musica lasciava, a volte, lo spazio a confessioni personali: il tempo che passa, il mercato che cambia, la fatica che sfianca, l’entusiasmo che ti fa fare le nottate. Anno dopo anno, ci si rifugiava lì. Per fare pratica di quella rara disciplina che era l’ascolto. Lo coglievi nei suoi silenzi, assorto nelle riflessioni elastiche dell’improvvisazione.

Impegnato nelle interrogazioni che faceva a sé stesso sul senso di un nuovo disco che sarebbe uscito, orgogliosamente, con il brand Splasc(h) Records. Etichetta indipendente; la prima capace di catalogare in quel lontano 1982, una gigantesca porzione del jazz italiano. Capace di definire in pochi anni lo spartiacque tra il jazz americano e quello di casa nostra, coagulandoli insieme. Talent scout verace e sopraffino, Peppo ha dato voce ad alcuni fra i migliori artisti che poi sono entrati di diritto nelle scuderie delle major di tendenza – Paolo Fresu, Stefano Battaglia, Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia – o si sono rivelati a tal punto originali da essere considerati unici nel panorama nazionale, come Odwalla e Enten Eller di Massimo Barbiero, Tiziana Ghiglioni, Tiziano Tononi con The Nexus Orchestra e The Society of Freely Sincopated Organic Pulse, Luca Flores (genio indimenticato al quale Valter Veltroni dedicherà, nel 2003, il libro “Il disco del mondo”). E poi l’avanguardia dei Maestri statunitensi: Anthony Braxton, Matthew Shipp, David S. Ware, Butch Morris con l’Orchestra della Toscana e Riccardo Fassi. Ma il punto, per Peppo, era un altro: cogliere l’essenza dell’arte e di chi le dà forma.

Arrivare a definire un equilibrio in quell’essere umano straordinario e stravagante quale è il musicista, personaggio che vive obliquo sul baricentro dell’esistenza. In questa incostanza creativa, Spagnoli si immergeva come un pennino nell’inchiostro. Girando l’Italia, nei luoghi dove la musica rimbalza nelle teste e nei cuori: dai corsi di Siena Jazz al Festival di Berchidda, in Sardegna.

Con un banchetto e centinaia di dischi che allora, come oggi, raccontano una storia indelebile che si è fatta materia di studio – e di tesi in musicologia – per i giovani di ogni epoca. Giovani nei quali credere, con tutta l’intemperanza e l’orgoglio che si portano sulle spalle. Perché per capire il nuovo – un concetto nel quale l’immensità si amalgama alla diversità e alle frizioni del cambiamento – Peppo studiava. E voleva che lo facessero anche gli altri: è per questo che un giorno mi regalò la mia prima, enciclopedia tascabile del jazz edita da Armando Curcio Editore. Pagine che oggi, dopo la scomparsa di questo visionario supporter del jazz italiano, assumono ancora più valore.

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Pubblicato il 10 Marzo 2020
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