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Heysel, la notte prima del massacro

Il ricordo di un varesino che il 29 maggio 1985 si trovava a Bruxelles per assistere alla partita tra Juve e Liverpool. I segnali di ciò che sarebbe accaduto allo stadio non erano mancati. Ecco il suo racconto

strage stadio heysel 1985 prima apertura

Oggi – 29 maggio 2020 – ricorrono i 35 anni dalla tragedia dell’Heysel. Riproponiamo le testimonianze pubblicate dieci anni or sono (per questo troverete i riferimenti a “25 anni fa”) così come le avevamo raccolte allora. Un piccolo omaggio che riteniamo doveroso verso una delle più grandi tragedie del calcio italiano che, tra l’altro, ci toccò da vicino per la morte di un uomo di Taino, Giancarlo Bruschera, allora 34enne.


Il 29 maggio 1985 ero a Bruxelles, all’Heysel. Sono uno dei tanti che è tornato a casa sano e salvo, anche se ancora non riesco ad accettare che si possa non tornare a casa dopo essere andati a vedere una partita di calcio. Quel giorno ha fatto come da spartiacque, c’è un pre e un post Heysel. Ricordo le discussione da bar accese e sanguigne, le “liti” con amici che avevano altri colori nel cuore. Dopo quel mercoledì non sono più riuscito ad arrabbiarmi per un evidente rigore negato, per un gol in netto fuorigioco. Certo, di sicuro non servivano 39 vittime per capire, ma finché discuti e vedi le cose in televisione, tutto sembra irreale, finto. Poi ti trovi in mezzo al dramma, e la prospettiva cambia.

La città era quieta e paciosa, come noi ci immaginiamo siano le città belghe, chissà perché. Mi sembrava strano che quelle persone non sentissero la tensione, non si rendessero conto che il giorno dopo la Juve avrebbe alzato la sua prima coppa dei Campioni. Perché era ovvio che sarebbe andata così, come lo era stato anche tutte le altre volte che poi avevano vinto gli altri. Ma questa era la volta buona, i campioni del mondo più Platini e Boniek ci avrebbero fatto finalmente gioire.
biglietto finale stadio heyselE poi io ero lì, finalmente. Dopo tante finali di coppa di basket, per la prima volta vedevo la mia Juve giocarsi la coppa che ci mancava tanto.

Tutti noi italiani avevamo lo stesso sguardo febbrile tutti volevano la stessa cosa, tutti avevano lo stesso sogno.
Nel primo pomeriggio, in centro è cominciato un po’ di movimento: gruppi di juventini, al solito caciaroni e invadenti, giravano per le strade sotto l’occhio perplesso e un po’ scocciato dei belgi, ai quali continuava a non interessare nulla della partita.
I primi tifosi inglesi facevano sorridere.
Gruppi di persone che cantavano a squarciagola. sacchetti del supermercato traboccanti di lattine di birra facevano folklore. Erano questi i terribili hooligans? La battuta più ricorrente era «Se li ha messi in riga la polizia italiana l’anno scorso a Roma, figurati qui!» A conforto e supporto di questa idea gli articoli dei giornali che, quasi disinteressandosi dell’evento sportivo, mettevano in risalto l’accurato servizio di sicurezza predisposto dai belgi.

Mi trovavo nella Grand Place, il centro storico della città, ero seduto a un tavolino in  mezzo ad altri italiani. Dall’altra parte della piazza un gruppo di inglesi, seduti e sdraiati per terra continuava a fare quello che stava facendo dal mattino: beveva e cantava. Voci e birre sembravano inesauribili e a noi tutto questo continuava a far sorridere. Il gruppo degli inglesi si infoltiva, il rumore cresceva ma tra noi e loro c’era tutto un mondo di distanza.
Come ad un segnale, però, ai canti si sostituirono cori contro di noi, i “fucking italians”.
Qualcuno cominciò ad uscire dal gruppo per gridarci qualcosa di suo, di personale. I primi di noi cominciarono ad allarmarsi e a cercare di allontanarsi ma, come nutriti dalla nostra paura, gli inglesi si lanciarono in un vero e proprio assalto, con lancio di lattine piene ad altezza d’uomo. Mi sono riparato dietro una colonna e ho visto l’inseguimento da lì dietro. Qualcuno degli inglesi mi ha visto, ma evidentemente era più divertente correre in gruppo rincorrendo gli altri italiani terrorizzati.

La voglia di Juve, della finale, della coppa, vinse facilmente su quell’avvertimento serale per cui il giorno dopo mi sono avviato allo stadio. L’Heysel era ed è in periferia e per arrivarci si prendeva un treno. Nel mio vagone c’erano molti inglesi. La cosa stranissima è che molti di loro erano travestiti, uno da frate, un altro da gobbo. C’erano un pagliaccio e anche un guerriero vikingo.
biglietto finale heyselLa cosa che accumunava tutti era l’odore. Non solo alcool o sudore, era una cosa molto più pesante, più profonda, un odore che veniva da lontano.
Il gobbo, ironia della sorte visto che anche noi juventini lo siamo, pretendeva che bevessi dalla sua lattina in segno di amicizia. Non so come sia riuscito a non farlo, anche se per il resto del tragitto le battute sull’italiano che non beveva hanno accompagnato il rumore del treno.
E finalmente lo stadio! Sono arrivato molto presto, ho avuto tempo di vedere il cordone di polizia a cavallo ordinato circondare le tribune, ma ben presto con le urla dei tifosi, i cavalli si sono innervositi e hanno iniziato ad impennarsi scalciando. Questo ha creato panico tra le persone e io, approfittando di un varco mi sono buttato verso l’entrata senza che il mio biglietto venisse toccato da qualcuno.

Il minuscolo settore dei tifosi del Liverpool si è ben presto riempito a dismisura. Gli inglesi erano separati dagli juventini da una rete custodita da 5 agenti, uno ogni 5/6 file di gradoni. Una partita di ragazzi ha acceso ancor più gli animi, visto che una squadra aveva la maglietta rossa. Ad un certo punto, come un vaso troppo pieno che trabocca, la rete divisoria è sparita, i poliziotti anche e una marea rossa ha invaso il resto della curva. Dalla nostra parte, a 120 metri di distanza (ero in uno dei tre settori riservati al tifo organizzato bianconero – nelle immagini il mio biglietto), non ci siamo accorti di quanto grave fosse la situazione, si pensava che gli italiani stessero uscendo da qualche porta laterale.
Noi volevamo la partita, speravamo che tutto finisse in fretta, che gli hooligans tornassero al loro posto e  le squadre potessero scendere in campo.
Vicino a me un signore aveva una radiolina che ad un certo punto ha iniziato a dare notizie sullo stadio. Davvero sulle prime si faticava a credere che ci fosse veramente un morto tra i nostri tifosi. Quando qualcuno delle prime file è riuscito ad entrare in campo, in barba alla sbandierata sicurezza, tornando con notizie tragiche, tutti noi abbiamo pensato a come uscire vivi da quella situazione ma la sicurezza aveva avuto ordine di tenere la gente dentro lo stadio per poter predisporre vie d’uscita sicure.

Penso, anzi spero, che la partita sia sta giocata solo per quello. Quel che è successo da lì in poi lo ricordano tutti, anche solo per averlo visto alla televisione. Quello che nessuno ha visto è stata la conta dei presenti all’uscita dallo stadio. Due ragazzi di Como su una Renault 4 mi hanno riportato in centro ma, passando nel parcheggio pullman, sentivamo nomi chiamati che non rispondevano e disperazione, terrore nei volti di quanti, col foglio in mano non riuscivano a trovare le persone che cercavano. A 25 anni di distanza il ricordo è ancora ben vivo e con esso il rammarico che tutte quelle vite sprecate non siano servite a nulla.

Gigi D. C.

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Pubblicato il 29 Maggio 2020
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