Il primo quarto di secolo: il “noi”, tecnologia antica che salva
La parola chiave per il futuro non è previsione. È resilienza. Resilienza non come resistenza passiva, ma come intelligenza viva: la capacità di attraversare l’imprevisto senza perdere sé stessi.
Comerio, anno 2000 circa.
Gunter, Katrin, Stefano, Gabriele e Giuseppe lanciano Pick-up&Go: una start-up rivoluzionaria prima che la parola “start-up” diventi moda. Per i dipendenti Whirlpool: consegna al lavoro della spesa del supermercato. Lavanderia. Videocassette a noleggio. Farmaci. E altre cose che oggi chiamiamo “servizi”, ma allora erano semplicemente tempo risparmiato. Gli ordini passano online, su una piattaforma costruita dal cugino di Gabriele: duemila euro e tanta incoscienza felice. Fornitori: l’Iper e i negozi locali. Risultato: un successone.
In poco tempo, comincia a prendere piede. A Milano, IBM e Kraft la vogliono per le loro sedi. Anche se Amazon arriverà in Italia dieci anni dopo, l’idea che da un angolo sperduto della Lombardia si potesse forgiare il futuro non spaventava. È stato possibile perché in quel momento c’era un’euforia illusoria e possibilista: se lo posso immaginare, lo posso realizzare.
Sì, all’inizio del 2000 il futuro aveva un suono rassicurante. Si parlava di progresso come di una linea retta, di pace come di una conquista definitiva, di tecnologia come di una forza gentile che avrebbe sistemato tutto. Eravamo entrati nel nuovo secolo convinti che il peggio fosse alle spalle e che il mondo, da lì in avanti, sarebbe solo migliorato.
Poi sono tornati gli orsi e i lupi, quelli a due gambe. Gli aerei contro le torri, le guerre senza fine, le crisi finanziarie (sub-prime, spread, default), i muri, le pandemie, il clima impazzito, le democrazie stanche, la paura come notizia quotidiana, in salsa di notizia falsa, diffusa dalle piattaforme social. E infine le macchine che scrivono, parlano, decidono. Pensano al nostro posto.
Ma se ci fermiamo un attimo, sotto il rumore, c’è anche un controcanto. Non di ottimismo, ma di umanità che si rialza.
Durante il Covid, per un tratto breve e incredibile, abbiamo riscoperto una cosa semplice: che dipendiamo gli uni dagli altri. La solidarietà non come parola buona, ma come gesto: spese portate agli anziani, telefonate a chi era solo, balconi che diventavano piazze, vicini che finalmente avevano un nome. E poi il coraggio dei medici e degli infermieri: non quello epico dei monumenti, ma quello quotidiano, ostinato, che si ripresenta in corsia anche quando la paura è già entrata nella stanza.
E intorno, mentre noi eravamo chiusi, il mondo ha mostrato una delle sue capacità migliori: la collaborazione reale. Scienza che corre insieme, non contro. Laboratori che condividono dati, cure che migliorano in mesi invece che in decenni. Una lezione semplice: quando smettiamo di fare tifo e cominciamo a fare lavoro di squadra, qualcosa si salva.
E continuano ad arrivare, le altre prove. E lì, ancora, la cronaca spesso registra il disastro e dimentica il resto: la parte in cui la gente si prende sulle spalle la giornata. In Italia lo abbiamo visto tante volte: nei terremoti, quando le cucine da campo e le mani dei volontari diventano una seconda amministrazione; nelle alluvioni, quando ragazzi con la pala spalano fango senza chiedere a chi tocchi; nella Protezione civile che è una parola astratta finché non la vedi, alle tre di notte, in una strada che non conosci, con una torcia e un tono calmo.
Fuori dall’Italia, lo stesso copione si ripete in mille lingue: catastrofi naturali, incendi, terremoti, uragani, e, subito dopo, quel gesto umano che non fa titolo: il primo che torna indietro, la catena di persone che passa secchi, la tenda condivisa, il generatore prestato, la famiglia sconosciuta che ti fa spazio.
Dove c’è la guerra, il punto più buio, persino lì, si vede qualcosa che sorprende: la resistenza come scelta collettiva. L’Ucraina che non capitola non è solo geopolitica: è un popolo che continua a mandare i figli a scuola quando può, che tiene in piedi ospedali e reti elettriche, che organizza volontari, che difende una parola semplice e gigantesca: “esistere”. È un tipo di coraggio meno cinematografico e più vero: restare.
Sono cose che non reggono il ritmo della cronaca, perché la cronaca vive di urgenze e la cura vive di ripetizioni. Ma sono proprio queste ripetizioni a fare storia: la pazienza, la competenza silenziosa, la dignità con cui tanta gente fa il proprio lavoro mentre tutto trema.
La sorpresa positiva, forse, è questa: non siamo diventati migliori per magia, ma abbiamo dimostrato di saperlo essere quando serve davvero. E anche se poi ci siamo distratti, quel fondo resta. Come una brace: non fa luce da sola, ma basta poco per riaccenderla.
Venticinque anni dopo, il XXI secolo non è diventato ciò che avevamo previsto, ma qualcosa che nessuno aveva immaginato. Leggere questi primi significa guardare il passato con gli occhi del futuro che ci aspettavamo, per scoprire quanto, nel frattempo, siamo cambiati noi.
Per capire l’ambiguità del secolo, servono pochi numeri, che raccontano le dinamiche di cambiamento, tra progresso materiale e pressione ambientale ed emotiva.
L’aspettativa di vita mondiale è cresciuta da circa 68 anni (2000) a 73 (2023) (+5 anni). La CO₂ è passata da 370 ppm nel 2000 a 425 ppm nel 2024. Nello stesso arco, la temperatura globale ha continuato a salire. Il 2024 è stato l’anno più caldo nelle analisi NASA, con una temperatura media globale +1,3°C sopra la baseline 1951–1980 (circa +1,5°C rispetto al livello “pre-industriale” 1850–1900).
Sul fronte “umano”, nel 2024 Gallup rileva 39% di adulti che hanno provato molta preoccupazione e 37% molto stress “il giorno precedente”; gli indicatori sono più alti di cinque punti rispetto al 2014. Dati basati su 145.000 interviste in 144 Paesi. I dati non mentono e non sorprendono.
Questa fragilità non riguarda solo gli individui: riguarda anche le istituzioni. In questi 25 anni anche quelle che sembravano “eternità” hanno mostrato crepe, come la Chiesa cattolica, che è una specie di sismografo umano. La rinuncia di Benedetto XVI, a febbraio 2013, è stata un gesto di fragilità dichiarata e, proprio per questo, di resilienza: l’idea che anche il vertice possa dire “non reggo più” senza far saltare tutto. Francesco, con un linguaggio diverso, quasi disarmato, che all’inizio si presenta con un “buonasera”: come a dire che l’autorità, ormai, o passa per l’umano o non passa.
In parallelo, l’Italia si è impoverita in silenzio: Eurostat mostra che tra 2004 e 2024 il reddito reale pro capite delle famiglie è sceso del 4% (mentre l’UE cresce del 22%). Ecco la stessa lezione, in due alfabeti diversi: quando la forza non arriva più dall’esterno, o inventi un “noi” che regge, o ti sbricioli.
All’inizio del secolo avevamo una mappa del mondo che oggi appare ingenua. Ci sembrava che la direzione fosse chiara: più tecnologia, più ricchezza, più democrazia, meno guerre, meno fame, meno paura. Il nuovo millennio veniva presentato come una lunga conferma delle promesse del Novecento. E davamo molti elementi per acquisiti definitivamente, come la democrazia e la libertà di movimento.
Alcune di quelle promesse non erano sbagliate. La digitalizzazione ha trasformato ogni aspetto della vita quotidiana. La conoscenza è diventata accessibile come mai prima. In medicina, ingegneria genetica, nelle energie rinnovabili, molte delle traiettorie che immaginavamo sono diventate realtà. Ma ciò che non avevamo compreso era la scala del cambiamento. La velocità. L’interconnessione. Il modo in cui ogni progresso avrebbe generato nuove fragilità. E soprattutto non avevamo previsto ciò che sarebbe mancato all’appello.
Non è arrivata la “fine della storia”. Le guerre non sono scomparse. La globalizzazione non ha prodotto automaticamente pace e stabilità. Le disuguaglianze non si sono ridotte: si sono spostate, moltiplicate, trasformate. Le democrazie non sono diventate più solide: sono diventate più esposte, più nervose, più vulnerabili. Abbiamo scoperto che molte delle certezze su cui avevamo costruito l’inizio del secolo erano in realtà equilibri temporanei.
E poi c’è tutto ciò che nessuno, davvero nessuno, aveva messo in conto.
L’11 settembre che ha ridisegnato la geopolitica. I social network diventati infrastruttura emotiva e politica del pianeta. Una pandemia globale capace di fermare il mondo intero. Una guerra nel cuore dell’Europa. Una crisi climatica che non è più solo un tema ambientale ma economico, sociale, culturale. E infine l’irruzione dell’intelligenza artificiale generativa, che in pochi mesi ha cambiato il modo in cui lavoriamo, studiamo, scriviamo, immaginiamo il futuro.
Il XXI secolo non è stato finora il secolo delle soluzioni. Si è avviato con molte sorprese, spesso amare, salate, a volte acide. Non abbiamo sbagliato solo le previsioni: abbiamo sbagliato il soggetto delle previsioni. Credevamo di prevedere il mondo. In realtà avremmo dovuto prevedere noi stessi. Tecnologia, economia, geopolitica: su molte traiettorie siamo andati lontano. Su di noi, su come reagiamo alla paura, al potere, all’insicurezza, alla velocità, abbiamo sopravvalutato la nostra evoluzione.
Non avevamo previsto quanta paura avremmo avuto con più informazione, quanta solitudine con più connessione, quanta fragilità con più possibilità, quanta confusione con più libertà. Abbiamo costruito il mondo dando per scontato che l’essere umano sarebbe diventato più saggio grazie agli strumenti. Invece l’essere umano è rimasto sorprendentemente simile, e gli strumenti sono diventati enormi. Il vero errore del XXI secolo non è stato tecnico. È stato antropologico.
Pick-up&Go non è andato avanti anche perché ancora oggi c’è chi, e non sono pochi, preferisce il rito del contatto umano alla gelida efficienza tecnocratica (e le banane preferisce sceglierle a vista). A questo punto la tentazione sarebbe provare a prevedere i prossimi 25 anni. Disegnare nuovi scenari, nuove promesse, nuovi allarmi. Ma dopo un quarto di secolo passato a scoprire quanto poco sappiamo prevedere, forse la previsione più onesta è un’altra: non possiamo sapere cosa accadrà.
Possiamo però sapere come stare dentro ciò che accadrà. Se questi primi 25 anni insegnano qualcosa, è che il futuro non premia chi indovina, ma chi regge. Chi sa adattarsi. Chi costruisce istituzioni flessibili, comunità solide, persone capaci di imparare, disimparare e reimparare. Chi investe nella fiducia, nella cooperazione, nella memoria, nella cura dei legami, nonostante tutto.
La parola chiave non è previsione. È resilienza. Resilienza non come resistenza passiva, ma come intelligenza viva: la capacità di attraversare l’imprevisto senza perdere sé stessi. Forse è questo il vero lascito: non una mappa del futuro, ma una bussola per attraversarlo. E forse, oggi, è più che sufficiente.
Epilogo. A Natale abbiamo rivisto L’isola di Tarkovskij e ho iniziato Il folle di Dio alla fine del mondo di Javier Cercas, sul viaggio in Mongolia di papa Francesco. E ci siamo chiesti: chi guarderà ancora film russi, tra qualche anno, se perfino noi facciamo fatica, dopo anni di rimbambimento da montaggio veloce e narrazioni facili, a restare dentro una lentezza che non intrattiene, ma cambia?
Chi andrà a camminare nelle steppe in silenzio, quando persino il Cammino di Santiago rischia di diventare un feticcio turistico, una foto prima ancora della fatica?
Forse la salvezza non viene più da Ovest come promessa esterna. La nuova frontiera è a Nord-Est: dentro di noi. Nel modo in cui torniamo capaci di attenzione, di verticalità, di silenzio, di “noi”.
La cronaca conta i danni. La storia conta chi resta.
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AMARE VERDE
non voglio l’onda alta,
ma la marea giusta.
scrivere in punta di capello,
sostare un passo prima di quello che arriva,
cantare la parola prima di quella che svela,
danzare sulla distanza che cura,
riposare nel perimetro che libera.
essere sicuro di essere vivo,
ricordarmi chi sono.
non spingere oltre la sera,
non provare che può essere migliore,
non chiedere di più.
voglio riconoscere che esiste.
io non devo arrivare:
devo restare vero.
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