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L’India, gli Stati Uniti e “la Roma che non ti aspetti”: Jhumpa Lahiri a Duemilalibri per un dialogo sull’identità

Intenso, non convenzionale e profondo: questo e molto altro è stato l'incontro di Duemilalibri con l'autrice internazionale del festival, Jhumpa Lahiri, autrice statunitense (di origini indiane) che da diversi anni vive a Roma e scrive in italiano. Una riflessione sull'identità e sulla ricerca continua di sé stessa

Jhumpa Lahiri a Gallarate - Duemilalibri 2022

Tre lingue – l’indiano, l’inglese e l’italiano – in una sola scrittrice, Jhumpa Lahiri, un’anima dinamica sempre alla ricerca instancabile di sé stessa e che dal 2014 risiede tra Roma e New York e pubblica i propri libri in italiano: ieri sera, venerdì 14 ottobre, ha presentato la sua ultima fatica Racconti romani (Guanda) al Maga di Gallarate, all’interno della rassegna letteraria Duemilalibri, al museo Maga. A dialogare con lei il giornalista Armando Besio.

Ci vuole una bella cocciutaggine per trasferirsi a Roma e a studiare l’italiano  e Lahiri lo ha più che dimostrato: «Pensavamo di stare a Roma per un anno, per spezzare un po le cose e fare un’esperienza, e poi ho capito che un anno era troppo poco. Da nove anni viviamo a Trastevere, quella casa è il punto fermo per la mia famiglia: nel frattempo abbiamo lasciato New York per Princeton e ora siamo tornati a New York. Quella di Roma è la casa dove sono cresciuti i bambini», ha raccontato.

Trasferirsi a Roma e scegliere l’italiano come lingua letteraria (la terza lingua dell’autrice, dopo l’indiano – la lingua madre – e l’inglese – la lingua matrigna -) è stata la risposta alla ricerca di sé stessa, dopo che l’autrice, per anni, si è sentita strattonata tra l’identità indiana e quella americana, sentendo di aver fallito in entrambe.

«Non mi sono mai sentita americana, perché nella mia famiglia ero indiana. Ma non ero neanche quello, perché fuori casa parlavo inglese, mangiavo le stesse cose dei miei coetanei statunitensi e ascoltavo la stessa loro musica; cercavo di definire me stessa e Roma, insieme alla lingua italiana che è diventata la lingua principale della mia creatività, è stato un grosso cambiamento. Lì sono riuscita a trovare un pezzo di me stessa».

Jhumpa Lahiri a Gallarate - Duemilalibri 2022

“La Roma che non ti aspetti”

Qual è l’unicità di Roma, che comunque è una città difficile da vivere? «L’umanità, è la città più umana che conosco. Io ero abituata a una città come Calcutta, travolgente e disordinata, ma ciononostante è una città ricca di cultura e stupefacente, così come lo è Roma». A Roma ha anche trovato una sorta di via di mezzo in grado di equilibrare, pacificare il conflitto tra India e Stati Uniti in cui è cresciuta: «Ho riconosciuto qualcosa di famigliare, confortante, eccitante e ho capito subito di sentirmi estremamente viva, vitale e parte dell’universo. Ed è quello che – penso – cerchiamo tutti».

Come hai deciso di studiare e scrivere in italiano? «Non volevo dimostrare niente a nessuno, neanche a me stessa. Con l’italiano è stato come scoprire un pezzo di me che mi mancava e che cercavo: è il desiderio che mi spinge a trovare una parte di me stessa, in quanto mi sembrava una lingua non straniera, ma mia e che dovevo parlare».

La Roma della silloge di Lahiri è molto lontana da quella dell’immaginario dei turisti o dalle atmosfere della dolce vita. Segnati da un ambiente al contempo ospitale e ostile, i personaggi che abitano questi racconti vivono momenti di epifania ma anche violente battute di arresto. Così Il confine descrive le vacanze di una famiglia in una casa della bella campagna romana, ma la voce narrante è quella della figlia del custode che un tempo faceva il venditore di fiori in città e nasconde una ferita. Ne Le feste di P. un uomo rievoca le animate serate nell’accogliente casa di un’amica che non c’è più. La scalinata, una storia corale di quartiere, raduna sei personaggi, diversissimi per origine e appartenenza, attorno a un ritrovo comune, un saliscendi continuo di vita nel centro di Roma. Nella Processione una coppia cerca invano in città consolazione e sollievo per un episodio del passato che ha segnato tragicamente le loro vite. Dante Alighieri affiora rigoroso e a suo modo inedito nella vita di una donna americana.

Il titolo della nuova opera richiama Alberto Moravia e ai suoi lavori che pubblicò tra il 1954 e il 1959, autore molto ammirato da Lahiri: protagonisti dei suoi racconti non sono più proletari o esponenti della classe media romana del secondo dopoguerra e le loro difficoltà quotidiane, bensì persone che, pur vivendo nella capitale, non sentono di appartenerle pienamente (quindi migranti, expat o anche turisti).

La scrittura per sottrazione

Inevitabile citare alcuni autori fondamentali per l’apprendimento dell’italiano e della scrittura in italiano: all’inizio dei propri studi, Lahiri leggeva prevalentemente i poeti del Novecento (Montale, Saba e Ungaretti); poi è passata alla prosa, quindi ai racconti e poi ai romanzi. Dapprima la scoperta della «prosa lapidaria di Moravia», per poi passare a quella più composita e barocca di Giorgio Manganelli. Ha quindi riscoperto autori che aveva letto in traduzione: Cesare Pavese (prosa e poesia) e Natalia Ginzburg .

La particolarità dei Racconti romani è il procedere per sottrazione che inghiotte luoghi e nomi: una scelta consapevole della scrittrice, che si lega con il tema dell’identità. «La questione dell’identità è sempre stata in primo piano nella mia produzione, dai nomi ai luoghi: nei libri in inglese ero fin troppo attenta ai nomi. Volevo riportare tutto in maniera estremamente specifica, forse perché sono cresciuta con due genitori con due genitori che vivevano lontanissimi dal luogo d’origine e l’India era diventata un fantasma; per rievocarlo in inglese allora volevo riportare tutto. Cercavo di fare così anche in America perché ero sempre sospesa fra mondi, culture, lingue diverse e non appartenevo né all’India né agli Stati Uniti».

Con il passaggio all’italiano, dunque, ha trovato una nuova chiave di astrazione: «Ho voluto togliere ogni specificità: è tutto aperto e il lettore può trovare questo tutto».

Questa scelta narrativa può essere letta anche come una risposta a chi le ha sempre chiesto da dove venisse, a cosa appartenesse; una domanda a cui non può esserci una risposta esaustiva o definitiva: «Non esiste una realtà nel mondo in cui non mi venga chiesto da dove vengo e ormai lo so. Ma esiste anche per i miei figli, che hanno il padre di origine greca e la madre indiana. Dobbiamo sempre rispondere a questa domanda perché tutti vogliono capire e collocarci in un luogo: anche se i luoghi sono importanti, se ci concentriamo sempre su di loro c’è una catena di nomi luoghi-appartenenza-identità che crea un blocco che diventa una gabbia. Perché non proviamo a sottrarre i luoghi per dire “possiamo pensare alla vita, ai sogni alle speranze senza essere così definiti dai luoghi?”».

La scrittrice ha anche parlato del suo amore per il latino e per Ovidio, di cui sta lavorando a una traduzione in inglese de Le metamorfosi, «il libro più importante della mia vita»: ma Lahiri non si vorrebbe fermare alle tre lingue, bensì imparare anche il neogreco – dopo aver ripreso il greco antico, studiato all’università – lo spagnolo, il francese e l’indi-urdu, «la lingua più bella da ascoltare».

Nicole Erbetti
nicole.erbetti@gmail.com
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Pubblicato il 15 Ottobre 2022
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