Può la bellezza salvare il cibo e il pianeta? Barbara Nappini dice di sì
La presidente di Slow Food Italia presenta a Materia il suo libro “La natura bella delle cose”, un appello appassionato a riscoprire la bellezza come leva di equità e speranza per trasformare il sistema alimentare e proteggere il pianeta

«Non basta più raccontare il cibo come qualcosa di buono da mangiare, bisogna trasformare il paradigma alla radice». Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia, usa parole decise e sincere per spiegare il cuore del suo impegno e del suo libro d’esordio, “La natura bella delle cose”, che presenterà giovedì 29 maggio alle 19.00 a Materia Spazio Libero (via Confalonieri 5 Sant’Alessandro Castronno).
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Il libro non è un semplice memoir né un testo di teoria, ma un racconto vivo, attraversato da esperienze personali e collettive che disegnano un futuro possibile, fondato su valori di equità e bellezza. «Quando ho preso la presidenza – spiega Nappini – ho sentito forte l’esigenza di dare una voce autentica a Slow Food, una voce che parli davvero alle persone, che le faccia sentire parte di una rete viva e inclusiva. La sfida oggi è capire che se un sistema alimentare non è per tutti e tutte, non è giusto, e allora bisogna cambiare».
Barbara porta con sé un’esperienza fuori dall’ordinario, fatta di scelte coraggiose e di una connessione profonda con la terra. Nel 2010 lascia la carriera nel mondo della moda per trasferirsi in campagna e diventare contadina in Toscana. «Ho aperto un’azienda biologica – racconta – e anche se non sempre è stato facile, quegli anni mi hanno insegnato il valore della resilienza e della costruzione di comunità intorno a pratiche sane e sostenibili».
È proprio in quel contesto che nasce il suo legame con Slow Food, un movimento che oggi guida con passione, portando avanti battaglie che non riguardano solo il gusto o la qualità del cibo, ma anche temi fondamentali come l’inclusione sociale, il rispetto per il lavoro e la sostenibilità ambientale.
Nel libro, Barbara svela anche l’importanza di “esserci” nelle situazioni più difficili, come quando insieme all’associazione si è trovata a bordo di una nave umanitaria nel Mediterraneo. «Donare un quintale di riso non è poco, ma essere lì è tutto, tutto diverso – dice –. Significa esserci, con il corpo e con gli occhi, significa poter raccontare questioni che spesso sembrano lontane, come l’immigrazione, e dimostrare che il cibo può essere un potente strumento di solidarietà e giustizia».
Uno degli aspetti più apprezzati del suo testo è la capacità di spiegare con chiarezza e semplicità temi complessi, che spesso scoraggiano o confondono. «Ho sempre cercato di usare un linguaggio accessibile – afferma – perché capire come funzionano davvero le dinamiche politiche e sociali che regolano il sistema alimentare è il primo passo per poterlo cambiare».
Il messaggio di fondo è un invito alla speranza e all’azione collettiva: «Il rischio più grande oggi è lasciarsi travolgere dal nichilismo, dalla paura e dall’impotenza. Io invece credo nella forza della collettività, nel potere delle azioni individuali che si uniscono per generare un cambiamento reale. Donne e giovani sono il motore di questa trasformazione, perché non hanno nulla da conservare e tutto da inventare».
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