Con “Il pane non può aspettare”: Buffa riporta Cabiaglio al bivio dell’8 settembre
Dal pane con l’uva del 1938 ai giorni dell’armistizio, il nuovo romanzo ambientato nel borgo varesino racconta un’Italia che si divide e sceglie. In libreria dal 5 settembre, anteprima l’11 al Salone Estense di Varese

Dopo due anni di lavoro Pier Vittorio Buffa torna dove aveva lasciato i suoi lettori: a Castello Cabiaglio, minuscolo paese tra il Lago Maggiore e la Svizzera. “Il pane non può aspettare” è un romanzo che prende per mano la comunità e la accompagna lungo il crinale più fragile della storia italiana: dai riti dell’ultima estate spensierata del 1938 ai giorni confusi e decisivi seguiti all’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
Per chi ha amato “La Casa dell’uva fragola” e per chi cerca nei romanzi il polso della storia, Castello Cabiaglio è di nuovo la bussola: un piccolo luogo, una grande domanda. E un profumo di pane che, ostinato, attraversa la guerra.
A Cabiaglio da Garibaldi alla Grande guerra attraverso il romanzo di Pier Vittorio Buffa
«Quando ho cominciato a lavorare a questo romanzo – racconta Pier Vittorio Buffa – ho messo ordine nelle storie che negli anni si erano accumulate dentro di me ma ho soprattutto cercato nuove testimonianze in memorie o carte lasciate da chi c’era, stimolato ricordi familiari. Così, piano piano, dalle storie del paese di quegli anni terribili, siamo tra il 1943 e il 1945, durante la Repubblica sociale e l’occupazione tedesca, è emersa la forza di Innocenta, la panettiera, che con la guerra diventa ancora di più punto di riferimento della comunità. Ho capito l’importanza del ruolo di Ernestino, primo sindaco del dopoguerra, nel proteggere e mettere in salvo, nel mantenere i rapporti con i capi partigiani».
Torni così a Castello Cabiaglio, perché?
«Castello Cabiaglio è uno dei tanti paesi del Nord Italia che hanno vissuto storie simili. Alla fine, scrivendo questo romanzo, ho avuto la sensazione di aver costruito una specie di lente di ingrandimento attraverso la quale rivivere quegli anni. Cabiaglio e i suoi abitanti infatti potrebbero avere nomi diversi ed essere più a sud, più a est, più a ovest, ma paure, speranze, lutti, gioie sarebbero simili, molto simili se non identici».
Cosa racconta il romanzo?
«Nel romanzo le vicende del paese si intrecciano con le storie personali di sette ragazzi così amici che prima della guerra avevano dato anche un nome al loro gruppetto, la banda del fischio. Poi la guerra determina i destini di ciascuno.
La posizione di Aristide e della sua famiglia è netta, è un antifascismo puro, direi naturale. Quella, opposta, dei due ragazzi che sposano gli ideali repubblichini sembra altrettanto netta ma nasce da motivazioni diverse tra loro e contraddittorie. Tra i sette giovani protagonisti del romanzo c’è poi chi cerca di mantenere una sua dirittura morale malgrado il caos che lo circonda e c’è chi dal caos si lascia travolgere faticando non poco a uscirne».
Il calendario dei ragazzi di Cabiaglio è fatto di gesti semplici: il pane con l’uva della prima domenica di settembre che chiude i bagni nei torrenti, la polenta alla cappella degli asini, le corse in bicicletta. È in questo rituale che incontriamo Aristide, giovane fornaio che ha ereditato il banco di impasto dal padre, morto sotto le botte e la ferocia fascista. Accanto a lui, la madre Innocenta tiene acceso il forno e il paese: calore domestico e civile, lievito di una comunità che resiste. Con Aristide c’è una piccola banda di sette ragazzi: età diverse, sogni diversi, ma in un borgo di poche anime contano soprattutto le alleanze dell’amicizia.
Quella domenica di settembre del 1938 è l’ultima davvero leggera. Cinque anni dopo, alle parole del maresciallo Badoglio, le strade si riempiono: la guerra “è finita”, si grida a mani a conchiglia. Per Aristide e Innocenta lampeggia la speranza—niente più caserma, forse ancora pane nel forno—ma la gioia dura un respiro: tra chi ha giurato al regime e chi lo contrasta, tra chi scrive dalla Grecia e chi è ripartito per il fronte, si apre un tempo di scelte irrevocabili. Come in tante Italie, anche a Cabiaglio i giorni dopo l’8 settembre diventano un campo minato morale: partigiani e repubblichini, prigionieri e disertori si guardano negli occhi con un fucile tra le mani e si domandano chi e che cosa salvare.
Buffa intreccia la Storia con le storie: non replica un manuale, ne intercetta le correnti sotterranee—paura, lealtà, fame, orgoglio—e le restituisce in una tessitura narrativa che ha il passo della memoria orale e l’attenzione del cronista. È la via che aveva già imboccato con “La Casa dell’uva fragola”, definita dalla critica «un romanzo sincero, pacato eppure emozionante» e capace di «narrare da una prospettiva personale e sfaccettata la Grande Storia». Qui quell’intonazione si fa più intensa: il pane come mestiere e destino, il forno come agorà, il paese come laboratorio del Paese.
Ne esce un libro civile e insieme intimo, che chiede al lettore di misurarsi con l’ambiguità dei tempi di frattura: non c’è bianco e nero senza il grigio delle esitazioni, non c’è eroe senza una madre che impasta. Eppure, avverte il titolo, certe urgenze non si rinviano: il pane non può aspettare, come non può aspettare la dignità di una scelta.
Il libro esce in libreria il 5 settembre. Presentazione in anteprima nazionale l’11 settembre alle ore 18 al Salone Estense di Varese.
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