L’incubo dei luoghi comuni: Massini accende il Teatro Sociale di Busto
Al Teatro Sociale di Busto Arsizio, nella serata dedicata alla “nuova vita” del teatro, prende forma un racconto che è confessione, satira e liberazione: l’incubo dei luoghi comuni, messo a nudo per imparare a riconoscerli, ridicolizzarli e lasciarli andare
Al Teatro Sociale di Busto Arsizio, mentre si parla di rinascita e di nuova vita per il teatro, Stefano Massini, primo ospite del nuovo triennio avente come direttore artistico Federico Zanandrea, sceglie di regalare al pubblico qualcosa di molto semplice e molto necessario: il suo incubo. Un incubo popolato da frasi fatte, scorciatoie di pensiero, luoghi comuni che si infilano nelle conversazioni, nelle attese, persino negli sguardi.
Perché il teatro — ricorda lui, quasi come un mantra — è presenza fisica: un corpo davanti a un altro corpo che prova a ragionare sul senso di stare al mondo. E per farlo servono storie inattese, non già preconfezionate. Storie che non “concludiamo prima della fine”. Storie che ti scombussolano, ti spiazzano, ti aprono prospettive. Il contrario dei luoghi comuni.
Ed ecco allora l’incubo: un sabato all’alba, una partenza mattutina per non trovare coda, la stazione pulita e lucida, pavimentata come un salotto elegante. Eppure, già infestata: persone che parlano a voce alta con le piante, il tabellone pieno di ritardi, e qualcuno che non rinuncia al solito paragone storico, infatti «mi giro, c’è Mussolini e tutti i treni sono in orario». Da lì in poi è un crollo inarrestabile.
Frasi che arrivano a raffica: «Si stava meglio quando si stava peggio», «Venezia è bella ma non ci vivrei», «a Genova sono tutti avari», «a Firenze tutti burloni», «Roma, tutte le strade…». Masini le elenca come se gli piovessero addosso, una dopo l’altra, senza scampo.
Sul treno il campionario continua: «Mai un italiano quando serve», «Il controllore è nero, ma snello: il nero sfina». E poi la politica, che è sempre “magna magna”, il teatro che “è morto”, la frase buona per ogni lutto — «se ne vanno sempre i migliori» — e quella per ogni mamma — «ce n’è una sola». Un fiume di parole che dovrebbero semplificare e invece confondono, incasellano, impoveriscono.
Massini narra come si narrano i mostri quando si vuole esorcizzarli: ridendoci sopra, ma anche mostrandone la violenza sottile. Come se ciascun luogo comune fosse una trappola pronta a richiudersi sul pensiero. Una specie di sonnambulismo sociale che prende tutti, prima o poi.
E allora il teatro diventa il luogo in cui svezzarli, i luoghi comuni: mostrarne l’odore stantio, farne sentire l’abuso, rivelare la sciatteria nascosta dietro la loro apparente sicurezza.
Perché il teatro vive — anche se la frase non riesce mai a finirla, e forse è proprio lì il punto: il teatro vive quando non si conclude prima del tempo, quando non ti rassicura, quando ti fa inciampare.
Massini chiude così: raccontando un incubo per costruire un antidoto. Un modo per dire che la nuova vita di un teatro passa anche da qui: dalla resistenza contro ciò che rende il pensiero pigro.
E dal coraggio di guardare in faccia, una volta per tutte, i nostri piccoli mostri quotidiani.
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