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Da richiedente asilo a cittadino italiano. “Ho tanto da dare all’Italia”

Jean Claude Mbede, giornalista originario del Camerun, ha lavorato anche nella cooperazione internazionale. Il suo percorso è stato tortuoso e a volte doloroso, ma racconta come si possa valorizzare le competenze e le provenienze di "nuovi italiani"

Generico 2018

Da richiedente asilo a cittadino italiano, che mette le sue competenze al servizio dello Stato. La storia di Jean Claude Mbede – giornalista di origine camerunense – è una storia di integrazione positiva, anche se tortuosa, non facile, a tratti dolorosa.

«Il passaporto italiano, per me, è una grande responsabilità, soprattutto quando sono all’estero e sento di rappresentare l’Italia» racconta  Mbede. Il 5 marzo, dopo una attesa durata sei mesi, ha giurato in municipio a Gallarate e ha ricevuto finalmente la cittadinanza italiana, dopo dieci anni dall’arrivo. «Sono arrivato in Italia a gennaio 2008, come richiedente asilo, a Varese. Poi sono passato da Crotone e Roma, dove sono stato per due anni». Nel 2010 ha visto il riconoscimento dello status di rifugiato politico, nel frattempo è arrivato a Gallarate, area metropolitana di Milano: «Avevo un lavoro a Milano, ma avevo difficoltà a trovare casa e così sono venuto qui. La mia prima casa è stata proprio qui in piazza Risorgimento» dice indicando un palazzo nella grande piazza appena fuori dal centro storico.

I rifugiati non vengono solo da Paesi dove è in corso una guerra, ma possono essere accolti in Italia anche per ragioni di persecuzioni individuali o di gruppo, ad esempio per motivi politici o di libertà di pensiero: Mbede ha dovuto lasciare il Camerun perché perseguitato per il suo lavoro di giornalista. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti in Italia dal 2013, ha poi lavorato «con la cooperazione italiana in Etiopia, che è l’ufficio più importante per l’Italia: sono stato ad Addis Abeba per due anni, poi ho preso un master di cooperazione internazionale in gestione delle operazioni umanitarie. Dalla comunicazione sono passato a un ruolo operativo».

L’origine straniera e il contesto culturale di provenienza hanno rappresentato un elemento in più per Mbede, ma in alcuni momenti anche un ostacolo, legato proprio alla cittadinanza. «Essere un rifugiato, sul lavoro, era un problema: in Etiopia mi hanno accreditato come italiano. Ma ad esempio la Tunisia non mi aveva riconosciuto, dopo sette mesi ho dovuto interrompere il rapporto di lavoro». Negli anni peggiori della crisi economica, ha faticato per assicurare continuità al suo percorso d’integrazione, a quello della sua famiglia.

Nel 2018, raggiunti i dieci anni di permanenza in Italia, Jean Claude Mbede ha ottenuto il decreto di cittadinanza del Presidente della Repubblica, ma l’ultimo passaggio – il giuramento in municipio – si è rivelato il più ostico. «Ho dovuto attendere sei mesi quasi esatti. In tutte le città il giuramento si fa nel giro di poche settimane, io ho dovuto attendere sei mesi e ho perso tutte le opportunità di lavoro». Perché ha dovuto rinunciare ad alcuni bandi specifici del Ministero degli Esteri che prevedevano la cittadinanza italiana per poter lavorare.

Dopo il giuramento in municipio a Gallarate, l’ultimissimo passaggio si è invece rivelato più veloce: «La Questura di Varese e il commissariato mi hanno subito consegnato il passaporto, in un giorno. Li ringrazio perché i tempi sono stati davvero brevi e per me il passaporto è anche un simbolo importante, di tutto il mio percorso di integrazione».

Oggi si sente in pieno italiano, non solo nei documenti ma anche perché l’Italia è entrata a far parte della sua identità. «Qui sono a casa» dice mentre passeggiamo all’ombra della statua di Carducci. «Ho due figlie: una fa il liceo linguistico, l’altra è in quinta elementare. Loro hanno tutta la loro vita a Gallarate, la scuola, le amicizie. Sono italiane a tutti gli effetti: io lavoro per la cooperazione italiana, vorrei vedere le mie figlie arrivare in alto».

Il tortuoso percorso decennale per arrivare alla cittadinanza ha risentito delle difficoltà economiche, di quadro giuridico, forse anche di un certo clima politico. Ha anche la sua visione personale sull’integrazione: «In Italia ho imparato che devi farti valere, devi voler lavorare per farti accettare. La seconda cosa è che devi farti valere, portare la tua cultura, le tue competenze: saperle valorizzare è un merito per l’Italia». È infastidito anche dall’uso che ritiene strumentale del tema degli stranieri in Italia, da destra e da sinistra: «Non deve essere sottolineato e sfruttato, anche politicamente. È la normalità, sottolinearlo lo fa diventare un altro problema per gli italiani, che hanno già tanti problemi. Lo Stato deve dare i diritti a tutti e poi chiedere i doveri. E chi sbaglia deve pagare».

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it
Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare.
Pubblicato il 13 Marzo 2019
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