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All’Aloisianum di Gallarate, la casa dei gesuiti che ha perso dodici confratelli in venti giorni

Metà sono riconducibili a Covid, gli altri per malattia o decadimento. Se ne vanno nell'Istituto, un tempo facoltà universitaria, che li ha visti giovani studenti

Aloisianum Gallarate

Il primo è stato fratel Zanatta, il sacrestano della chiesa, il 31 ottobre scorso, festività di Sant’Alfonso Rodriguez. Da allora, in tre settimane, sono dodici i gesuiti morti all’istituto Aloisianum di Gallarate.

«Cinque o sei per Covid, a giudizio del medico» chiarisce subito padre Roberto Gazzaniga, responsabile della residenza che oggi ospita anziani gesuiti. «Gli altri per problemi cardiaci, deperimento, anzianità. L’ultimo, 88 anni, l’abbiamo sepolto ieri».

Al cimitero del quartiere Crenna, a un paio di chilometri di distanza dall’Aloisianum, i tumuli sono ancora in terra, allineati nel riparto che accoglie i gesuiti. «In un anno muoiono in media una decina di confratelli, quest’anno in dieci mesi erano morti cinque». Poi da fine ottobre i numeri si sono moltiplicati, anche se appunto solo metà dei decessi vengono ricondotti dal medico a Covid.

tombe gesuiti Aloisianum Gallarate

L’istituto Alosianum è un unico, enorme palazzo, architettura anni Trenta sul ciglio della collina morenica del quartiere Ronchi. Il monumentale scalone centrale è chiuso da anni, si entra da un ingresso laterale: una piccola lapide ricorda che sotto la scaletta (per non disturbare i confratelli, quando rientrava tardi la sera dopo gli impegni caritativi) si coricava Padre Igino Lega, amatissimo ex cappellano militare, reduce dei campi di lavoro nazisti. All’interno dell’ala laterale gli spazi sono ridotti e non s’immaginano i lunghi corridoi, le stanze che un tempo ospitavano oltre centro giovani studenti della Compagnia di Gesù.

Oggi l’Aloisianum è la casa venticinque religiosi e due religiose, «la più parte del Nord». Padre Gazzaniga spiega che i confratelli vivono per buona parte del giorno nelle varie camere e anche i momenti di limitata socialità prevedono che vengano mantenuti isolati i singoli piani, per ridurre il rischio del contagio da Coronavirus. «C’è un piano, il quarto, usato un po’ come infermieria, sono assistiti da un medico e dal personale, di notte c’è una cooperativa che fa assistenza». Complessivamente ci lavorano quattordici persone, mentre i pasti vengono preparati da una cooperativa esterna.

Aloisianum Gallarate
Padre Roberto Gazzaniga

«Da inizio ottobre la colazione viene servita in stanza, così come i pranzi e la cena. Hanno poi tempo per le meditazioni personali. L’eucarestia veniva celebrata alle 10.50, nella cappella del quarto piano, poi per evitare assembramenti abbiamo sospeso e oggi l’eucaristia viene data singolarmente a ciascuno».

I dodici gesuiti morti in venti giorni hanno una età compresa tra gli 88 e i 98 anni. Tra loro c’è anche padre Bartolomeo Sorge, una figura di primissimo piano, giornalista e punto di riferimento per l’elaborazione del cattolicesimo democratico. «È stato il secondo, è morto molto serenamente, nel sonno, al mattino. Mai un lamento, nonostante i suoi novant’anni».

Aloisianum Gallarate
Padre Umberto Ceroni nel 2019, ritratto nei giardini dell’Aloisianum con alcuni suoi ex allievi, tra cui l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini (foto dal sito exleo.org)

Il più anziano dei gesuiti scomparsi è invece padre Umberto Ceroni, 98 anni, «un decano»: «Un padre che ha passato la più parte della sua vita all’istituto Leone XIII, fino ai 93 anni ha insegnato» racconta padre Gazzaniga (anche lui in passato al Leone XIII, celebre scuola di Milano). «Uomo di grande lucidità e di grandi interessi. Padovano d’origine, era stato anche insignito dell’Ambrogino d’oro, per la sua attenzione e la sua cura educativa».

Nella divisione interna alla Compagnia i padri sono i gesuiti che hanno completato gli alti studi, mentre i fratelli sono i “coadiutori temporali”, che anche all’Aloisianum si occupavano della gestione della Casa. I padri oggi a Gallarate concludono la loro esistenza terrena nel luogo dove hanno studiato, come fece anche Carlo Maria Martini, l’arcivescovo di Milano scomparso nel 2012: il “Filosofato” – il corso di studi univrsitari – è stato avviato nel 1936, l’Aloisianum era (e formalmente è ancora, anche se inattiva) facoltà pontificia.

Aloisianum Gallarate
La chiesa dell’Aloisianum, chiusa da un mese

Tra gli studenti c’era anche padre Walter Rossetti, un altro dei gesuiti scomparsi, «che per tutta la vita si è occupato della pastorale famigliare». Padre Diego Brunello, che si prendeva cura della prestigiosa biblioteca dell’stituto. Altri fratelli si occupavano invece delle esigenze della Casa, come si chiama nell’organizzazione gesuita: dal 1959 l’Aloisianum ha anche una chiesa, dove si celebra secondo il rito romano, è stata la prima chiesa dei Ronchi, il quartiere sulla collina che si apre alle spalle dell’istituto. Chissà quanti dei frequentatori avranno incontrato anche fratel Luigi Zen, anch’egli sacrestano della chiesa, «uomo molto amato», l’ultimo scomparso, il 20 novembre 2020.

«Io sono qui da dieci anni, ma prima ci sono stato come studente nel periodo 1968-71» racconta padre Gazzaniga. «Gli studenti erano allora centodieci, anche grazie alle borse di studio della famiglia Bassetti, Rosa e Giannino, che finanziavano gli studi dei giovani sudamericani. Peruviani, colombiani, ma più di tutti ricordo i colombiani, avevano dei formatori straordinari».

Aloisianum Gallarate

Oggi è il luogo del fine vita, «un luogo di passaggio», vissuto «con grande partecipazione e serenità, anche grazie al personale che è molto bravo». E anche i corridoi oggi silenziosi e sofferenti sono un ricordo della vita passata, quando erano affollati dagli studenti della Compagnia. Chini sui libri che avrebbero fatto di alcuni di loro figure eminenti della Chiesa italiana, ma anche a passeggio tra gli orti e i giardini di rose (amati da Martini), confinanti con una piccola fattoria che oggi è diventato il Tennis Club cittadino. Di tanto in tanto partivano in lunghi cortei in bicicletta, per raggiungere le sponde del fiume Ticino, un poco più in là della collina e dei vasti boschi.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it
Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare.
Pubblicato il 25 Novembre 2020
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