Dove i cecchini sparano e i bambini sorridono, lo sguardo di Mario Boccia
Una serie di scatti e un’intervista che raccontano la Bosnia di ieri e di oggi, attraverso lo sguardo di Boccia. Lunedì 15 dicembre alle 19 a Materia l’inaugurazione della mostra, a seguire la presentazione del 25° Librosolidale
«Non riesco a distinguere la professione dalla vita». È da qui che bisogna partire per capire Mario Boccia, fotografo che da oltre trent’anni attraversa frontiere, linee del fronte e comunità ferite senza mai perdere il filo delle persone. Il suo lavoro, in mostra da lunedì 15 dicembre alle 19 a Materia Spazio Libero (prenota qui), è fatto di immagini che non cercano il colpo drammatico, ma l’essere umano che resiste. Che ricostruisce. Che, nonostante tutto, continua.
Boccia è tornato in Bosnia dopo dieci anni, nel viaggio organizzato per i 25 anni del Librosolidale di Xmas Project, la cui presentazione seguirà l’inaugurazione della mostra, lunedì 15 alle 21 (prenota qui). Un ritorno carico di emozione: «È stato particolarmente forte ritrovare vecchi amici e amiche. Ci conosciamo dai primi giorni della guerra jugoslava: ognuno di loro porta con sé un pezzo della mia vita». Il legame con quei luoghi è profondo e antico. Prima ancora dei reportage, c’è il bambino che negli anni ’60 veniva in vacanza nella Jugoslavia di sua madre, partigiana. C’è il ricordo vivido della prima moschea vista a Sarajevo, confusa per “un missile” e poi scoperta, entrando per mano a lei. Una memoria che si è riattivata violentemente quando, tornato da adulto, ha trovato quegli stessi paesaggi dilaniati dal nazionalismo e dall’odio.
Da fotogiornalista, Boccia ha scelto spesso di non restare “da una sola parte”. Attraversare la linea del fronte significava incontrare le vittime e, inevitabilmente, anche chi sparava. «La cosa che mi ha sconvolto di più è che molti assassini avevano il volto di persone normali. Non i mostri che immagini. Ragazzi che ti augurano buon Natale e un minuto dopo ti spiegano che sparare a un bambino è logico, perché “da grande sparerebbe ai nostri”». È l’abisso della guerra: la normalità che diventa orrore senza che il volto cambi. Una consapevolezza che lo ha accompagnato in Bosnia come in Palestina, dove già nel 1990 fotografava israeliani e palestinesi che manifestavano insieme per la pace.
Tra le sue storie più care c’è quella della cooperativa “Insieme” di Bratunac, nata da dieci vedove di etnie diverse, nel territorio di Srebrenica. «Quando me ne parlò Rada, una delle fondatrici, io ero scettico. Mi disse: “Se si può fare qui, si può fare ovunque”. Aveva ragione». Donne che hanno scelto il lavoro al posto della vendetta. Che hanno trasformato frutti di bosco in confetture e succhi diventati simbolo di convivenza, i “Frutti di Pace”. Un progetto che Boccia ha seguito fin dall’inizio, fotografando la raccolta nei boschi, la fabbrica, le mani che trasformano la frutta. E che grazie alla collaborazione con il movimento cooperativo italiano è cresciuto fino a coinvolgere centinaia di persone.
Boccia racconta anche la parte più “luminosa” della guerra: i bambini che giocano tra le granate, che sorridono davanti a una vetrina crivellata di colpi. «Una volta non mi pubblicarono una foto perché il bambino rideva. Ma in quel sorriso c’era tutta Sarajevo: la voglia di vivere.»
Oggi, mentre nuovi conflitti riportano parole come “genocidio” al centro del dibattito internazionale, Boccia ritrova nella Bosnia un messaggio che vale anche altrove: «Se due donne, una serba e una musulmana, ti accolgono a pranzo ridendo e cucinando insieme, non sapresti dire chi è chi. Questa è la forza. Se ci riescono qui, forse si può riuscire anche altrove».
Il suo sguardo, nelle fotografie in mostra, continua a testimoniare proprio questo: che nei luoghi dove la guerra ha distrutto tutto, la pace rinasce attraverso gesti semplici, ostinati, quotidiani. Che il futuro – come dice lui – passa dalle mani dei bambini. E dalla capacità degli adulti di ascoltarli.
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