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“Il Covid ci ha fatto pensare a noi stessi”. Ma è veramente così?

Il racconto di Marco: "Andrà tutto bene, ce la faremo e altre cose divertenti che non dirò mai più"

Libri generica

Ammetto di aver pensato di iniziare il mio personale ricordo con qualcosa tipo «è stata una bella botta», oppure «il virus ci ha fatto pensare a noi stessi», o ancora «ci farà capire cosa non va nel mondo». Poi ho capito che erano banalità sconcertanti – se non vere e proprie fesserie – e ho lasciato perdere (ho volutamente lasciato fuori «andrà tutto bene» per ovvi motivi).

Questa non è una riflessione. Primo perché è ancora troppo presto, e se è vero quello che dicono in molti, con il Covid-19 dovremo ancora conviverci a lungo. Secondo perché, anche ammesso che la fase più dura sia terminata, non possiamo considerarci lucidi e a mente fredda in un momento in cui andare a fare l’aperitivo in centro diventa un avvenimento epocale, con decine di agenti segreti della Stasi nascosti per le strade pronti a segnalare al Politburo il ragazzo che si azzarda a dare un bacio sulla guancia alla propria fidanzata, dopo tre mesi di estenuanti videochiamate dalla durata media di 6 ore e 54 minuti.

In questi mesi sul coronavirus abbiamo letto una quantità infinita di editoriali e commenti. Riflessioni. Anche condivisibili, sia chiaro, ma quasi tutte di persone che, a una-due-tre settimane dall’inizio di un’esperienza mai vissuta da nessun uomo o donna vivente (esclusi quelli sopravvissuti alla spagnola), lasciavano intendere di aver già capito tutto e di poter parlare come si parla delle Guerre Puniche (problema ancora spinosissimo, peraltro).

La rubrica che ha lanciato il giornale (a cui possono partecipare tutti) è piuttosto una collezione di ricordi, perché quelli sì si possono raccontare, sono unici e – passatemi il termine – utili. Alcuni drammatici. Scoprire come gli altri hanno vissuto la quarantena è il modo migliore per avvicinare le persone e farle sentire meno sole, molto più che un paio di frasi fatte buttate nelle conversazioni per fare brodo.

Per una persona come me che – non chiedetemi perché, non ne ho idea – percepisce il tempo muoversi molto lentamente, questa quarantena è durata in eterno. Tutti noi ritorniamo col pensiero a metà febbraio e ci sembra un mondo completamente diverso. Per me, pensare a quegli ultimi giorni di relativa normalità equivale a tornare con la mente nel passato remoto. Non mi ricordo più cosa vuol dire uscire di casa quando si vuole, senza mascherina, e andare a fare quello che si vuole. Aggiungo: non so neanche se mi piacerebbe tornare a farlo, se penso alle innumerevoli ciarle prive di senso che riempivano la nostra vita pre-pandemia.

Certamente l’isolamento forzato a casa mi ha colpito. I pezzi che ho scritto per il giornale erano tutti monotematici. Mettere la parola coronavirus dentro gli articoli era diventato un gesto quasi automatico. Ho potuto apprezzare il lavoro dei sindaci di piccoli comuni che si sono messi pancia a terra a lavorare, in equilibrio tra il buon umore di facciata da mostrare ai cittadini e la ridda di decreti, norme e precisazioni dall’alto arrivati a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Da buon abitudinario, da un giorno all’altro non sono più potuto andare a bere il caffè al bar; non è solo il caffè, ma il rito di sedersi su un tavolo dei vergognosi e leggersi il giornale in pace (ma è anche il caffè). Non sono più potuto andare al Maga a studiare, che da un paio d’anni era diventato il mio posto fisso almeno nei weekend. Ho fatto teatro in pantofole, lanciando battute al vetriolo addosso a uno schermo col pensiero costante e fastidioso del sorriso smargiasso di Eric Yuan, il CEO di Zoom che in questi tre mesi si è arricchito sulla pelle di milioni di dipendenti e partite IVA costretti a sorridere plasticamente per ore davanti al computer. E ho frequentato le mie ultime lezioni universitarie in pigiama sul letto, con professori novecenteschi e connessioni instabili, perfetti per una concentrazione già messa a dura prova da un’epidemia di scala mondiale.

Anche il mio rapporto con i libri ne ha risentito. D’un tratto è diventato arduo stare su una pagina senza interruzioni o fughe del pensiero. C’è dell’ironia in questo: mi sono sempre lamentato di aver troppo poco tempo per leggere, e che quando ne avevo ero sempre distratto dai rumori, dagli aerei, dalle notifiche, dalla gente che parla ad alta voce in treno e nei locali. E nel periodo più silenzioso dell’epoca moderna, con il maggior tempo possibile da dedicare a me stesso, ho letto meno di quanto non facessi nel caotico e chiassoso mondo di prima. Chissà che il coronavirus non sia una punizione divina, un flagello mandato da Dio per dirci: «Razza di fannulloni, vedete che non avete scuse? Chiedete sempre tempo per voi stessi, e ora che ve lo do lo buttate via così?»

Se devo essere sincero, in questo periodo non ho fatto chissà quali riflessioni su di me. Né più né meno di quante ne facessi prima. Ma ho pensato a cosa direbbe George Best se avesse vissuto l’isolamento: ho passato il tempo a mangiare schifezze, cibi grassi, magri, salutari e tossici. Insomma, ho passato il tempo a mangiare. Il resto l’ho sprecato.

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Pubblicato il 30 Maggio 2020
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