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Katya e la fuga da Kiev assediata dai tank russi, si scappa dalla guerra come si può

Ha 25 anni, per giorni ha vissuto con amici sottoterra, in una cittadina nei sobborghi della capitale. Sabato ha lasciato Kiev per il confine con la Polonia. Il racconto di un'altra profuga: "Ospedali svuotati per lasciare posti ai feriti, mia mamma è morta a casa"

guerra ucraina

Una settimana sottoterra, nei rifugi improvvisati, poi la decisione di partire, in treno, per lasciare Kiev assediata. «Le persone sembravano impazzite, tutti volevano fuggire» racconta Katya, che ha 25 anni e oggi è al sicuro in un paesino della pianura di Vercelli, dove è arrivata grazie al “convoglio solidale” delle associazioni della zona di Malpensa. È originaria della zona di Chernobyl e per questo passava le sue estati in Italia, per ridurre l’esposizione alle radiazioni. Oggi però abita a Kiev.

Quando le truppe russe hanno varcato il confine tra Bielorussia e Ucraina, nella notte di giovedì 24 febbraio, Katya ha deciso di lasciare la capitale per sicurezza: «Sono andata subito in un villaggio vicino a Vashyl’kiv (35 km a Sud-Ovest della capitale), dalla mia capa del lavoro e dalla sua famiglia. Loro avevano un piccolo rifugio, ma non troppo adatto, appena sotto terra». Le immagini che pubblichiamo mostrano la lunga attesa durante i primi giorni di bombardamenti.

«Quasi subito hanno colpito il deposito di carburanti: era a dieci chilometri da noi, ma si vedeva enorme fumo e le fiamme come se era di fianco a noi. Poi sabato i miei amici mi hanno scritto che l’hanno bombardato per la seconda volta. Non bastava la prima». Il deposito era considerato strategico anche per la vicinanza a un aeroporto militare che è base dei Mig-29 ucraini: nel weekend è scattata anche qui la mobilitazione totale della guardia nazionale.

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Il bombardamento del deposito carburanti di Vashyl’kiv visto dal villaggio dove era Katya

Nel frattempo Katya ha deciso di partire verso la frontiera polacco-ucraina: «Sono tornata a Kiev e sono partita in treno sabato sera, con un’amica. Sono riuscita a salire al terzo treno che passava: le persone erano impazzite, tutti volevano fuggire. Ci eravamo sempre detto di non farsi prendere dal panico, ma poi è saltato tutto: non ho visto rispetto da parte di nessuno». Il treno da Kiev porta fino a Leopoli, è un corridoio rimasto intatto in questi giorni (anche ai russi conviene l’esodo dei civili, per rendere più incisiva l’azione d’avanzata). «Poi ho proseguito con l’autobus dalla stazione di Leopoli alla dogana».

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Un altro momento nel rifugio improvvisato a Vashyl’kiv

Il villaggio dei genitori occupato dai russi: tank e tende tra le case

Il punto di passaggio è stato il valico di Medyka, nei dintorni di Pzremysl, città che ha accolto quasi 50mila rifugiati in questi giorni. «Alla dogana c’erano moltissime persone. La mia amica è stata recuperata da amici, ma io non sono riuscita a partire». Alla fine è stata recuperata in modo fortunoso dal furgone della Croce Rossa di Busto Arsizio e ha potuto rientrare fino a Samarate (accanto a Malpensa), dove ha riabbracciato la sua “famiglia italiana”, che l’ha accolta per tante estati quando era bambina e ragazzina. La sua famiglia, invece, è rimasta in Ucraina.

Samarate generica generiche
L’abbraccio in piazza a Samarate

«I miei sono nel villaggio da cui veniamo, nella zona di Chernobyl, già raggiunta dai russi». Come si comportano le truppe di occupazione? «Hanno montato delle tende nella via del villaggio, ci sono i tank e chi ci abita non esce in strada. In un altro villaggio vicino invece non sono entrati». Va considerato che finora i russi non hanno avuto ancora il tempo di consolidare l’occupazione, ma stanno avanzando ancora su precise direttrici per assediare le maggiori città (non bisogna immaginare un controllo capillare).

Gli ospedali “svuotati” per fare posto ai feriti

Alla frontiera di Medyka il “convoglio solidale” ha recuperato anche una signora ucraina che vive nei dintorni di Brescia e che ha una storia tutta particolare e drammatica. «Io sono in Italia da vent’anni. Ero in Ucraina per andare da mia mamma che stava male: aveva avuto il Covid, l’avevo portata in ospedale, ma l’hanno mandata a casa perché la terapia intensiva serviva ai feriti, ai soldati. È morta il 2 marzo» ci ha raccontato subito dopo il passaggio di frontiera, ancora segnata da ore di fatica ed emozioni continue.

«Mia figlia è medico: le donne partoriscono sottoterra, ma lei non ha potuto neppure venire su. Subito dopo che è morta mia madre ho preso il treno, tutti in piedi per ore. Da Leopoli ho chiesto a un amico di portami alla dogana: gli ultimi 3-4 km li ho fatti a piedi a piedi, sono stata male, un militare mi ha soccorso». Un lungo e doloroso viaggio, fino al rientro in Italia. Con il cuore – come tutti gli ucraini – diviso tra la salvezza raggiunta e la preoccupazione per chi è rimasto nelle città assediate.

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it
Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare.
Pubblicato il 09 Marzo 2022
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